Caterina Resta
Stranieri nella metropoli
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M. Sironi, Cavallo
bianco
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Pubblicato in “Anterem”:
Eterotopie, 58, 1999, pp. 81-84 |
La
descrizione della città della tarda modernità, luogo dell’estraneità
e dell’essere-straniero, come quella esemplare che si staglia in
modo possente nelle pagine del Tramonto dell’Occidente
di Spengler, molto deve alla celebre analisi simmeliana de La
metropoli e la vita spirituale (1).
In quel saggio del 1903, Simmel delineava il quadro di una vita urbana
in cui l’irreversibile azione dei ritmi di lavoro e dei mezzi di
comunicazione aggrega una massa di estranei, costretti alla convivenza
forzata in spazi ristretti, in circostanze in cui è impossibile
conoscenza diretta e amichevolezza, che, al contrario, funzionano come
potenziali inneschi di conflittualità. La prossimità obbligata
nel calderone della metropoli mostra fin dall’inizio come, ben lungi
dal perpetuare le antiche forme di convivenza o dall’inventarne
di nuove, essa produca una nuova forma di estraneità e di avversione:
quella “leggera antipatia”, risposta difensiva all’invasività
fisica degli altri, non tarderebbe molto a trasformarsi in aperta aggressività.
La partecipazione alla polis sembra lasciar
posto a una folla di ombre che calcano il suolo artificiale della grande
città moderna, quella “madre di tutte le città”
(metropoli) che finisce con il vampirizzare
tutto ciò che le sta attorno: campagna, natura, provincia, fino
a renderne impossibile un’autonoma sopravvivenza. Fine dell’armonioso
transito dalle mura cittadine e dagli orti suburbani alla campagna, la
logica imperialistica della metropoli moderna è quella dell’illimite,
non tollerando altro da sé: «la città
concepita come un mondo vicino al quale non deve
esistere un diverso mondo» (2).
E Spengler vede nel volto vittorioso e fascinosamente tecnologico della
“cosmopoli” la cifra stessa del destino della nostra civilizzazione:
la maschera funebre dell’estremo sradicamento che, al contempo,
consente di sentirsi a casa ovunque e in nessun dove, trasformando i suoi
abitanti in cosmopoliti dappertutto stranieri. Essa è l’ultima
incarnazione del grande mito fondante dei Lumi, che ormai disvela la logica
della sua anima faustiana, l’anelito prometeico dell’Occidente.
Il vagare inquieto dell’uomo dei primordi paradossalmente ritorna
all’estremo limitare della civiltà: quelle patrie faticosamente
inventate, quelle comunità da cui ha tratto identità e protezione,
l’uomo d’Occidente le ha dissolte nella sua smania dell’oltre:
il Moderno disprezza ormai quel radicamento da pianta nel “paesaggio
materno” della cultura, quel legame terraneo che diventa un linguaggio
superiore di forme nel paesaggio: «Soltanto la civilizzazione con
le sue città gigantesche torna a disprezzare queste radici della
spiritualità e si stacca da esse. L’uomo civilizzato, nomade
intellettuale, torna ad essere tutto microcosmo, privo di patria,
spiritualmente libero come il cacciatore o il pastore» (3).
La logica che porta al sorgere delle città è del tutto diversa
dall’“anima” dei villaggi: “l’aria della
città rende liberi”, poiché il suo spazio si schiude
proprio a partire da una radicale separazione
dall’ingens silva che la circonda,
da quella foresta che ora diviene un fuori
minaccioso. Alte mura non basteranno a difendere uno spazio che si sente
accerchiato e che perciò corre sempre il rischio di perdere il
senso del proprio limite, dei propri confini, nel folle desiderio di tutto
comprendere e ridurre a sé, perché nulla, di fuori, possa
insidiarne le assolute pretese. «Una volta destatasi, quest’anima
si crea un corpo visibile», e quel corpo è destinato a crescere
indefinitamente, apparato tecnico che prolifera mostruosamente in protesi
e ibridazioni sempre nuove. Il volto della città si estranea allora
del tutto da quel fuori che la circonda, non dialoga più con esso,
neppure per negarlo, o per viverne anche solo nella fantasia le favolose
leggende: semplicemente lo mette a tacere, lo riduce a silenzio inascoltato,
sopraffatto da una lingua “rumorosa”, quella, appunto, «delle
forme di queste grandi figure di pietra, quale la stessa umanità
delle città, tutta occhio e tutta ‘spirito’»
(4). Ma se l’azione
della città moderna è di aggressione intollerante verso
quell’altro – il paesaggio naturale e ciò che in esso
di storia e culture si è sedimentato – che dall’esterno
potrebbe minacciarla, anche al proprio interno essa assimila tutto a sé.
I suoi abitanti, innazitutto: «L’uomo della civiltà,
che era stato formato spiritualmente dalla campagna, diviene proprietà
e strumento della sua stessa creatura, della città, e infine viene
ad essa sacrificato» (5).
Il sacrificio dei cittadini al “colosso di pietra” avviene
mediante l’annullamento nell’assolutezza
della metropoli. Ma si tratta di un regno disanimato, quel «deserto
demonico di pura pietra» nel quale riecheggia l’annuncio tragico
del nichilismo nietzschiano; l’immagine della cosmopoli è
quella della morte, della rigidezza cadaverica, che non consente identificazione
alcuna. La metropoli non è Heimat,
non è focolare: è solo la trama
dell’economico che ne determina la configurazione, senza più
possibiltà di un’appartenenza al luogo, alla tradizione,
in un’opera di progressiva cancellazione di ogni memoria. Quelle
folle cittadine atomizzate da cui furono così colpiti osservatori
anteveggenti come Poe, Baudelaire o Benjamin, sono adesso divenute –
come un altro profeta dell’avvenire aveva agli inizi di questo secolo
preannunciato – «costruzioni organiche» (6),
come immense barriere coralline, innesti viventi di un ingranaggio, maglie
di una rete onnipervasiva, il cui disegno complessivo spesso non è
neppure presagito. Persino i volti, nella sempre maggiore levigatezza
e uniformità dei tratti, annunciano una progressiva cancellazione
di ciò che è singolare e unico. Indifferenti.
Strappato a ogni radice, condannato a vagare come straniero nell’anonimia
sempre uguale delle città, il nuovo tipo umano del “nomade
intellettuale” non incontra che stranieri, senta tuttavia considerarli
come tali, anzi, con la rassicurante certezza
di non incontrare altri che il medesimo di sé. Forse allora non
era tanto lontano dal vero Spengler quando, invece di tessere le lodi
indiscriminate del cosmopolitismo, ne annunciava gli inevitabili contraccolpi:
esso è l’essere morti alle radici e a tutto ciò che
è cosmico, l’irrevocabile cadere sotto il potere della pietra
e dell’algidezza intellettuale, l’estrema astrazione dall’individuato,
dal differenziato, e dunque la fine di qualsiasi appartenenza e identità.
La cosmopoli diviene allora quello Stato Mondiale
(7) nel quale tutti sono cittadini solo al prezzo di un’assoluta
cancellazione di ogni idioma, lingua, comunità, memorie singolari.
Il nomade moderno, non a caso, “comunica” attraverso l’unica
lingua universale, quella della tecnica, che a sua volta spezza le antiche
pietre nell’incessante travaglio cui sottopone la terra e gli umani.
Nella cosmopoli è la tecnica a trionfare, senza
resti. Il trionfo del gigantismo, emblema non solo apologetico
della metropoli, e l’informità-uniformità dei suoi
cloni ne sono il sembiante bifronte. Allora, nella città mondiale,
non si può che perdersi, nell’impossibilità di riconoscimento
di un luogo rispetto agli altri: il mondo è tutto Trude, la disperante
«città continua» di Italo Calvino, dove i sobborghi
sono uguali a quelli di qualsiasi altra città, stesse «le
case gialline e verdoline. Seguendo le stesse frecce si girava le stesse
aiole delle stesse piazze. Le vie del centro mettevano in mostra mercanzie
imballaggi insegne che non cambiavano in nulla» (8).
I “non-luoghi” di cui parla Augé (9)
rischiano di apparire, in fondo, consolatori nella loro ancora delimitata
tipologia; in realtà, per quanti aeroporti e voli si possano cambiare,
il mondo è fatto di molte Trude, pressoché indistinguibili;
anzi, «il mondo è ricoperto da un’unica Trude che non
comincia e non finisce, cambia solo il nome dell’aeroporto»
(10).
Il “perdersi” non è lo spaesamento momentaneo, l’effetto
della sospensione degli schemi di riconoscimento di un luogo. Non c’è
più luogo, nella dimensione metropolitana per quell’evento
singolare e unico
che fa di una vita un’esistenza con-divisibile: per questo essa
non ha più luogo. E tuttavia, dove altrimenti annunciarsi se non
ancora qui? Lì dove, nella sua tracotanza,
la cosmopoli infine mostra quell’insanabile contraddizione che ne
corrode l’inesorabile logica: quando l’affermazione perentoria
di uguaglianza si trasforma nella più violenta negazione di differenze,
quando la forsennata apologia del cosmopolitismo si converte in un babelico
sicretismo che confonde e omologa ogni tratto singolare
in un unico amorfo orizzonte, nel quale sovrana regna solo
l’indifferenza.
La cosmopoli di pietra, con «le prospettive di lunghe vie di pietra
incassate fra edifici altissimi, piene di un pulviscolo d’ogni colore
e di strani rumori» dove anche «gli abiti, gli stessi visi
sono intonati ad uno sfondo di pietra» (11),
trapassa ormai insensibilmente nella «città di quarzo»,
pura dimensione del flusso informativo che dissolve lo spazio reale in
un istantaneo accadere d’immagini: forse, come è stato prospettato
da Paul Virilio, la “cibernetica sociale”, se dissolve lo
spazio pubblico della città, tuttavia confermerà l’accentuazione
metropolitana del mondo: una città-mondo virtuale indipendente
dall’estensione geofisica della Terra, finalmente il prodotto più
perfetto di quell’omologazione iniziata agli albori della Ratio
occidentale, pervenuta al suo scopo ultimo e fondante, quello di trasformare
senza residui in rappresentazione la realtà: è ancora e
sempre Cartesio che spunta dietro il sembiante bionico del cyborg, ultima
versione della maschera mortuaria delle metropoli moderne.
E tuttavia, se è vero, come ancora sapeva Spengler, che la cosmopoli
è destino, ciò vuol dire che
essa segna anche un punto di non ritorno. Impossibile dunque appare ogni
nostalgia a un prima di essa. Il processo
attraverso il quale la razionalizzazione tecnico-scientifica si è
imposto su scala planetaria provocando una generalizzata Entortung
(12) ha irrimediabilmente
estirpato ogni radice, consegnando l’uomo moderno al suo destino
di esule e straniero. Ma proprio questo la cosmopoli dimentica: essa ama
mostrarsi nell’idolatrica sembianza di una Dimora, di una Casa,
promette facili appaesamenti e nuove opportunità di interazioni
collettive, mentre invece mai sedato, mai veramente a casa può
essere quell’abitante – vera figura di moderno straniero –
che l’attraversa. Tragica è la figura di questo Straniero
metropolitano, per nulla conciliato, come invece certo nomadismo vorrebbe
far intendere, in perfetta adesione a quel nichilistico deserto che descrive.
Egli sa infatti di non poter più appartenere
a nulla che sia proprio: ma, al limite di
questa estrema indigenza, la sradicatezza che lo strappa ad ogni suolo
può mostrarsi inconfessabile testimonianza di un altrove che, nell’espropriarlo,
pure lo appropria a sé. Nella sua inaudita parola la cosmopoli
è ricondotta entro il suo limite, quando non fuori, ma proprio
nel suo centro più segreto, invisibile
si schiudono quella Wildnis (Jünger),
quella Lichtung (Heidegger), che, come oasi
nel deserto, offrono al viandante invisibili
ripari, tracce sempre sul punto di cancellarsi di quel non-dove verso
il quale lo Straniero orienta i suoi passi. Non è forse la poesia
una di queste terre promesse su cui poter almeno “poeticamente abitare”?
1. G. Simmel, Le metropoli e la vita dello
spirito (1903), a cura di P. Jedlowski, Armando, Roma 1998.
2. O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente
(1918), tr. it. di J, Evola, Longanesi, Milano 1981, p. 784.
3. Ivi, p. 777.
4. Ivi, p. 783.
5. Ivi, p. 793.
6. Cfr. E. Jünger, L’operaio. Domio
e forma, tr. it. di Q. principe, Longanesi, Milano 1981.
7. E. Jünger, Lo stato mondiale. Organismo
e organizzazione, tr. it. di A. Iadicicco, Parma, Guanda 1998.
8. I. Calvino, Le città invisibili,
Einaudi, Torino 1972, p. 135.
9. M. Augé, Nonluoghi. Per un’antropologia
della surmodernità, tr. it. di D. Rolland, Eleuthera, Milano
1993.
10. Ivi, p, 135.
11. O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente,
cit., pp. 784-785.
12. Cfr. C. Schmitt, Il nomos della terra nel
diritto internazionale dello «jus publicum Europaeum»
(1950), tr. it. di E. Castrucci, Adelphi, Milano 1991. Per un aprofondimento
di questi temi rimando a C. Resta, Stato mondiale
o Nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Pellicani,
Roma 1999.
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