Luisa Bonesio
L'arca del mondo
Editoriale del numero 5, 2001,
dedicato alla «Montagna come luogo dell’impervio»,
della rivista italo-francese L’Alpe.
www.priulieverlucca.it
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Quando la modernità inventò il paesaggio
montano, le Alpi, che erano state fin dalla preistoria luogo di transito
e di incontro di mondi diversi (quello “nordico” e quello
“mediterraneo”, ma anche quello delle pianure orientali dell’Europa),
apparvero all’immaginazione artistica e alla sensibilità
estetica un mondo inospite, severo se non terribile, la cui verticalità
assurgeva a una sorta di sublime iniziazione e veniva codificata nella
cifra dell’inaccessibilità. Allo sguardo della cultura urbana
non appariva rilevante la precoce antropizzazione delle regioni alpine,
perché gli “indigeni” erano, nella loro presunta selvatichezza,
associati alternativamente e in modo complementare alla rozzezza o alla
probità primordiale dei costumi: così, una caratteristica
naturale dello spazio - l’impervietà delle Alpi - si prestava
ad essere tradotta in attributo temporale, la primordialità, cifra
di una radicale soluzione di continuità rispetto al mondo urbanizzato.
Una sorta di mineralizzazione del tempo imputabile alla predominante rocciosità
del mondo alpino, alla sua scoscesa spigolosità, barriera reale
o immaginaria che si frappone alla curiosità da intellettuali cittadini,
costituendosi come la ragione di una presunta autosufficienza o di una
totale intransitabilità. Così la pietrosa consistenza delle
Alpi diventa l’immagine dell’immobilità, dell’intransitività,
dell’impercorribilità, l’imposizione dell’eterna
presenza di un luogo, tendenzialmente immutabile: idea che, seducente
per l’inclinazione estetica dell’epoca che “scopre”
le Alpi, è in realtà persecutoria e insopportabile per la
modernità faustiana, divorata dall’ansia di far proprio e
uguale a sé ogni angolo della Terra, immettendolo nel ritmo rapinoso
e in-consistente dell’oltre. Ma, appunto, potrebbe essere solo un
problema di intraducibilità della complessa dimensione alpina per
una cultura che, assai sintomaticamente, non smetterà di interrogarsi
sui modi per razionalizzare l’impervietà alpina, a partire
dal progetto di Viollet-le-Duc di allargare la valle di Chamonix, consequenziale
alla scomposizione in figure geometriche calcolabili del paesaggio e alla
concezione delle montagne come “corpi di fabbrica” suscettibili
di integrazioni e migliorie architettoniche. Nell’utopia architettonica
della razionalizzazione dell’informità e inaccessibilità
del mondo dei monti, l’impervietà diventa un ostacolo da
correggere e possibilmente vincere, nel segno di una transitabilità
sempre maggiore, che, immettendo quei luoghi chiusi e appartati nell’universo
della circolazione, al contempo ne azzera le potenzialità di rifugio.
Da questo punto di vista, non è rilevante il fatto che le Alpi
costituiscano un inevitabile crocevia, una rete di porte e di vie di passaggio
segnate da consuetudini secolari di scambio, perché questa loro
proprietà non contrasta con la presenza, non meno reale, di luoghi
e vallate marginali e isolate; così come non è un’evidenza
in grado di scardinare una persistente e significativa convinzione culturale
la presenza, in remoti primordi, di un’umanità paleolitica
ad alte quote, nel cuore delle Alpi, come le ricerche di Francesco Fedele
hanno documentato esemplarmente. Perché le Alpi sono (state) al
tempo stesso impervie e ospitali, chiuse e aperte, raggiungibili in ogni
tempo ma per un lungo periodo della nostra storia poco visibili, quasi
un enorme Monte Analogo protetto dalla sua alterità per cui la
cultura rischiava di non avere né occhi né lingua: intraducibile,
appunto, nelle sensate rappresentazioni della ragione urbana. Si potrebbe
dire, per paradosso: inurbane, e quindi impervie, anziché il contrario.
Prodigiosamente stabili rispetto a un mondo in accelerazione, uguali a
se stesse pur in contatto con la “storia” fino a qualche decennio
fa, ecumene con un proprio radicato, unitario e pur differenziato nomos,
montagnosa insularità nel cuore di un’Europa cartesiana e
faustiana, le Alpi forse hanno finito con l’apparire agli occhi
di quel mondo, che le ignorava e poi le ha assediate, come il rifugio
di se stesse, di quell’alterità selvatica e immobile, scandalosamente
consistente, la cui temporalità minerale stava infine, anch’essa,
al pari delle grandi civiltà trascorse e perciò idealizzate,
sgretolandosi, aprendosi alla voracità del mondo. Cattedrali della
Terra infine violate da un’umanità curiosa che le disseminava
di ossi di pollo e gusci d’uovo - al tempo dell’inorridito
Ruskin - o le ammorba democraticamente di ferraglia, cemento e gas venefici
ai nostri giorni come il resto del mondo, sembra ormai arduo vederle come
luogo di rifugio, oggi che non esiste cosa impervia che non possa essere
domata nelle dimensioni dell’artificiale. Eppure, probabilmente
è proprio qui, in quest’epoca, che occorre riaprire la questione
della montagna, dell’impervio e del rifugio.
Uno spirito - dolce o aspro - distingue in greco il termine per indicare
la montagna (oros) e quello che indica il
confine (horos): profonda affinità
che si dà a vedere nella parola orizzonte,
quella linea visiva che chiude in compiutezza percettiva un paesaggio.
Le Alpi, confine del paesaggio di pianura e, al loro interno, incastro
di molteplici e spesso angusti orizzonti, appaiono come la imponente materializzazione
dell’idea di confine, e dunque di cerniera di spazi, articolazione
plurima di luoghi spesso remoti e solitari, la cui staticità è
potuta divenire oggetto di riprovazione etica e di sospetto ideologico,
poiché la rigidità della pietra e la conformazione geografica
rinchiudente potrebbero - secondo il filosofo dell’utopia Ernst
Bloch - “significare un radicamento particolarmente stagnante, adialettico
ed estraneo all’esodo”. Anche in questo caso, non conta che
le popolazione alpine abbiano conosciuto la necessità dell’esodo,
proprio e altrui, ma che per lungo tempo anche nel tornare siano rimaste
fedeli a un amore dei luoghi, che prima ha attirato su di sé la
censura progressista in nome dell’emancipazione dalle radici, e
poi il ripensamento nostalgico e proiettivo dell’industria culturale
e turistica. Le Alpi, in virtù della loro estensione e profondità
riccamente articolate e differenziate, hanno potuto costituire l’immagine
di terra di nessuno, zona di un’indefinita fascia di frontiera nella
quale hanno preso corpo e immagine i fantasmi e le speranze di una cultura
proiettata nell’ansia del cambiamento perenne: la selvatichezza,
Wildnis reale e simbolica, il pericolo e
l’arduo, la pace e la follia, l’originario e il diverso, l’ascesi
e il diabolico. Dunque spazio di ricerca, avventura, nascondimento, fuga,
isolamento ma anche scambio, incontro, accoglienza, protezione dove anche
reietti e “devianti” di ogni specie hanno potuto allontanarsi
da un mondo ordinato nelle reti del controllo. Tuttavia la dimensione
di rifugio cui l’impervio - e dunque per eccellenza il mondo alpino
- sembra vocato può essere perseguita consapevolmente come una
delle condizioni (forse quella privilegiata) per l’affermazione,
ancor prima che per la difesa (veicolata nella semantica del rifugio),
di pluralità e differenzialità di fronte alla logica omologante
del nostro tempo. Le culture delle Alpi hanno saputo interpretare una
natura difficile e selettiva come spazio di un abitare sapiente, efficace
e duraturo, che forse proprio per questi suoi tratti potrebbe apparire
come figura di una condensazione essenziale - una sorta di arca che traghetta
attraverso i flutti del caos indifferenziante - della libertà di
scegliere sempre di nuovo la fedeltà alla propria storia culturale.
Da questo punto di vista, allora, l’intransitabilità/intraducibilità
(simbolica e pratica), la irredimibile selvatichezza che ha costituito
per il mondo alpino la protezione della sua esemplare fisionomia, oggi
appare la figura stessa della salvaguardia, lo spazio di un far consapevolmente
salve, senza smarrirne la memoria, le peculiarità dei luoghi e
degli uomini.
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