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Roberta De Monticelli, Dal vivo. Lettere a mio figlio sulla vita e sulla felicità
BUR, Milano 2001
http://www.bur.rcslibri.it/

Recensione di Luisa Bonesio

 

Oltrecorrente 4, 2001
www.oltrecorrente.it

 

È probabilmente riduttivo parlare di questo ispirato libro di meditazione, poesia e riflessione filosofica prescindendo dalle altre opere dell’Autrice, ordinaria di Filosofia contemporanea all’Università di Ginevra, originale interprete degli studi fenomenologici in Europa. Ma già il precedente libro di poesie, Le preghiere di Ariele (Garzanti 1992), l’aveva segnalata come un felice (e raro) caso di quel che Heidegger avrebbe chiamato un pensiero poetante. Felice, perché, pur senza che venga mai meno la passione e il diuturno lavoro del rigore e del nitore del pensiero, il dettato poetico è di folgorante ed essenziale intensità. Dal vivo appare come una sorta di monologo rivolto al figlio, nelle felici sere d’estate in cui l’anima può svagarsi dalla quotidianità lavorativa, riconquistando lo stato di infanzia, di felicità e allegria della mente che coincide con la possibilità - sempre più difficile per noi contemporanei - di lasciarsi sorprendere, toccare, illuminare dal darsi del mondo. La natura che si dà a vedere nella “vita contemplativa” che solo l’infanzia conosce nella sua purezza intatta, nell’aura delle cose che l’esistenza adulta sarà destinata a tradire e smarrire nella cura dei suoi molti, e spesso vani, oggetti, però, non è il quadro oleografico di un vagheggiamento di maniera. Se guardare alla natura, per l’Autrice, vuol dire anche in questo caso mantenersi fedele ai principi ispiratori della fenomenologia - “nulla appare invano”, ogni cosa ha un suo specifico modo di apparire, ma anche di affondare nell’invisibile - essa sarà colta nel suo offrirsi, in un darsi inesauribile che coinvolge e suscita, ben al di là della ragione astratta e dominatrice, tutto il nostro essere - sensi attenti e intelligenti, immaginazione, cuore. Lo sguardo, insomma, diventa un vedere sostanziato dall’accoglimento nel cuore del mondo, un’attenzione che corrisponde alla bellezza del dono di quanto si manifesta.

Che cosa insegna, al figlio e a noi, questo libro? Una percezione della Natura in cui traluce lo splendore degli Archetipi, dai quali ogni cosa trae la sua luminosità, la sua esemplarità singolare, il suo “spirito”, quel soffio vitale che poi si appannerà per noi, che nel mondo naturale scorgiamo per lo più occasioni di impossessamento. Ma come dire una Natura tanto contraffatta e tradita dalla cultura moderna? Roberta De Monticelli la chiama “il vivo”, “il punto pullulante dell’origine continua” (p. 175), “quello che ci chiama nelle cose, quello di cui improvvise s’accendono, quando c’è come un vento che le ravviva […] quell’improvviso respirare delle cose: Spirito” (p. 15). Il vivo è il paese natìo dell’anima, quel paesaggio elettivo che per ciascuno ha una sua singolare e irripetibile fisionomia, una specifica “ampiezza” di respiro che solo la felicità dell’in-fanzia conosce, ma poi smarrisce, e potrà ritrovare, adulta, solo nel Paesaggio, quell’ampiezza di cui non possiamo privarci senza morire: “ecco perché, in questo nuovo respiro del largo, sentiamo che qualcosa è salvo” (p. 43). La ricchezza incomputabile del darsi, il respiro delle cose che si avverte come compiutezza e bellezza non è scindibile dall’altro carattere del vivo, “l’alto”, la connessione verticale tra la profondità delle radici e il rivolgersi al cielo, di cui l’Albero è figura archetipica, così come il “largo” appare nella figura della volta stellata.

Tutta la riflessione - punteggiata dalla poesia, “orazione di quiete” - è intessuta di rimandi alla metafisica e alla teologia, benché in questo libro la meditazione filosofica sia risolta sempre nella tersa e quintessenziale semplicità con cui se ne potrebbe parlare a un bambino. Così il farsi incantare dallo spettacolo di una betulla che fa tremare nel vento le sue foglie come scaglie di luce, o dal mistero dei fuochi lontani che brillano in cielo, diventa interrogazione sull’unità e molteplicità del tutto. Essere fedeli alle cose, riserbare loro quell’attenzione che sola ci restituisce al loro dono, vuol dire realizzare in sé (“l’anima si fa una, raccolta, contenta”) quell’uno che “si fa moltitudine d’esistenza” (p. 55): Gelassenheit, desto abbandono. Ma se l’uno e i molti non sono scindibili, vuol dire che all’uno si accede solo mediante la forma e l’individualità di ciascuna cosa, attraverso la de-limitazione e il confine che racchiude, e preserva, in ogni nostro luogo, “la vita che ci fu accordata”: il profilo riconoscibile degli anni, così facile a sperdersi nelle parole e nel senso, “si staglia, fermo, come la linea d’orizzonte di un paesaggio. E questa linea ha sempre la purezza di un limite, come diversamente segna il confine del mondo con la luce il profilo dei monti e quello più dolce dei golfi. […] E la mente si accorge che s’acqueta solo là dove un limite s’accende, come nel riso delle cime a sera, e nel riso del mare, di fronte alla sera”(pp. 56-57).

Ma questa “felicità della mente”, la grazia in cui il vivo torna a splendere, è conquistata attraverso l’ascesi filosofica, l’interminabile cimento nel deserto delle parole e nelle città del tempo. Il “crollo” dei bastioni della mente (“Gerico è presa. La vita che resta / non ci appartiene: è la breve ventura d’essere interamente in ogni cosa, / l’immensa squarciatura”, p. 86) che solo lo stato poetico, la parola essenziale dell’infanzia e dei mistici, “la lingua del vivo”, compie il dono di questa restituzione, facendoci appartenere al segreto della felicità “diramata” dell’albero, che si amplia nel largo quanto più sale nell’alto, o alla giustizia della terra, profondità e levità di un corpo celeste. La poesia, così, diventa pensiero del cuore in cui si realizza l’unità di sé con l’Uno, la condizione unita, raccolta, infine, dalla dispersa molteplicità, “punto vivo nella luce dell’alto e nella felicità del largo”: non salva nell’uno, oltre le cose, ma intera, unita, una in ciascuna e in tutte.


Il libro è notevole per la sua portata speculativa, qui espressa in tutta la sua altezza e originalità di approccio, in un modo che integra e arricchisce con una preziosa sfaccettatura la produzione teorica dell’Autrice, impegnata nell’elaborazione di una teoria della “conoscenza personale”. In effetti, si potrebbe dire che quell’“annuncio di un’individualità essenziale” che è la fisionomia, il volto di ciascuna cosa si dà a vedere anche nei paesaggi che compaiono nella loro essenziale esemplarità nel libro conferendogli la sua indimenticabile aura, e in tutte le figure del vivo. Ma del pari notevolissima è la scrittura, che rende possibile il risultato speculativo, e in particolare le poesie che costituiscono il controcanto dell’andamento meditativo. Qui Roberta De Monticelli si conferma come una delle voci poetiche più ferme, cristalline e “metafisiche” dei nostri anni, ma anche più prossime alla grazia del rivelarsi del mondo, ai suoi aspetti più inappariscenti, come nell’Elegia del monaco Daniele (“E io senza respiro / io Daniele stilita, qui serrato / nella torre del petto, incarcerato / qui, nell’alto ricetto del pensiero / - oh implacato splendore senza fonte / e senza ombre - anch’io chinai la fronte / fra le dita dischiuse a varco, e piansi / di conoscere il largo della vita”). Indimenticabili sono alcuni componimenti, ma tutti esemplari, di una poesia coltissima, tuttavia mai compiaciuta sterilmente dei suoi tecnicismi, né vicina a una qualche attuale maniera, bensì parola dell’anima, forma dell’attenzione, “esercizio dell’espressione fedele”, e dunque preghiera (molti dei componimenti sono “preghiere”, certamente non “confessionali”, ma espressione di quella venerazione che - secondo Jünger -, insieme con gli spiriti più alti tutto il vivo manifesta con la sua stessa esistenza): così, la risonanza poetica intesse echi di Dante, Luzi, Eliot, Ortese, Char, Penna, Rebora, Ungaretti, ma anche di Agostino, Plotino, Giovanni della Croce, Tommaso d’Aquino e altri dottori angelici. Perché la parola poetica qui non è sfogo soggettivo, compiacimento estetizzante dell’io, o peggio, algido chimismo disanimato; ma è dedizione all’“anima lucente” della poesia, a quel suo essere lauda, pensiero del cuore, ringraziamento e salvezza di quel punto di singolarità che è ogni volta e sempre di nuovo la scintillazione del vivo, di cui anche l’esistenza di ciascuno fa parte: “Non ti chiedo di distinguermi dagli altri / ma di distinguermi in te. // Di ridurmi a me stesso, a questo punto di ciò che è. // E tutto sarà salvo / tutto raccolto e quieto // in quest’ora contento. // Io sarò nuovo, allora / in riva a te. // Nella luce del mare, un punto vivo”.