È probabilmente riduttivo parlare di questo ispirato
libro di meditazione, poesia e riflessione filosofica prescindendo dalle
altre opere dell’Autrice, ordinaria di Filosofia contemporanea all’Università
di Ginevra, originale interprete degli studi fenomenologici in Europa.
Ma già il precedente libro di poesie, Le
preghiere di Ariele (Garzanti 1992), l’aveva segnalata come
un felice (e raro) caso di quel che Heidegger avrebbe chiamato un pensiero
poetante. Felice, perché, pur senza che venga mai meno la passione
e il diuturno lavoro del rigore e del nitore del pensiero, il dettato
poetico è di folgorante ed essenziale intensità. Dal
vivo appare come una sorta di monologo rivolto al figlio, nelle
felici sere d’estate in cui l’anima può svagarsi dalla
quotidianità lavorativa, riconquistando lo stato di infanzia, di
felicità e allegria della mente che coincide con la possibilità
- sempre più difficile per noi contemporanei - di lasciarsi sorprendere,
toccare, illuminare dal darsi del mondo. La natura che si dà a
vedere nella “vita contemplativa” che solo l’infanzia
conosce nella sua purezza intatta, nell’aura delle cose che l’esistenza
adulta sarà destinata a tradire e smarrire nella cura dei suoi
molti, e spesso vani, oggetti, però, non è il quadro oleografico
di un vagheggiamento di maniera. Se guardare alla natura, per l’Autrice,
vuol dire anche in questo caso mantenersi fedele ai principi ispiratori
della fenomenologia - “nulla appare invano”, ogni cosa ha
un suo specifico modo di apparire, ma anche di affondare nell’invisibile
- essa sarà colta nel suo offrirsi, in un darsi inesauribile che
coinvolge e suscita, ben al di là della ragione astratta e dominatrice,
tutto il nostro essere - sensi attenti e intelligenti, immaginazione,
cuore. Lo sguardo, insomma, diventa un vedere sostanziato dall’accoglimento
nel cuore del mondo, un’attenzione che corrisponde alla bellezza
del dono di quanto si manifesta.
Che cosa insegna, al figlio e a noi, questo libro? Una percezione della
Natura in cui traluce lo splendore degli Archetipi, dai quali ogni cosa
trae la sua luminosità, la sua esemplarità singolare, il
suo “spirito”, quel soffio vitale che poi si appannerà
per noi, che nel mondo naturale scorgiamo per lo più occasioni
di impossessamento. Ma come dire una Natura tanto contraffatta e tradita
dalla cultura moderna? Roberta De Monticelli la chiama “il vivo”,
“il punto pullulante dell’origine continua” (p. 175),
“quello che ci chiama nelle cose, quello di cui improvvise s’accendono,
quando c’è come un vento che le ravviva […] quell’improvviso
respirare delle cose: Spirito” (p. 15). Il vivo è il paese
natìo dell’anima, quel paesaggio elettivo che per ciascuno
ha una sua singolare e irripetibile fisionomia, una specifica “ampiezza”
di respiro che solo la felicità dell’in-fanzia conosce, ma
poi smarrisce, e potrà ritrovare, adulta, solo nel Paesaggio, quell’ampiezza
di cui non possiamo privarci senza morire: “ecco perché,
in questo nuovo respiro del largo, sentiamo che qualcosa è salvo”
(p. 43). La ricchezza incomputabile del darsi, il respiro delle cose che
si avverte come compiutezza e bellezza non è scindibile dall’altro
carattere del vivo, “l’alto”, la connessione verticale
tra la profondità delle radici e il rivolgersi al cielo, di cui
l’Albero è figura archetipica, così come il “largo”
appare nella figura della volta stellata.
Tutta la riflessione - punteggiata dalla poesia, “orazione di quiete”
- è intessuta di rimandi alla metafisica e alla teologia, benché
in questo libro la meditazione filosofica sia risolta sempre nella tersa
e quintessenziale semplicità con cui se ne potrebbe parlare a un
bambino. Così il farsi incantare dallo spettacolo di una betulla
che fa tremare nel vento le sue foglie come scaglie di luce, o dal mistero
dei fuochi lontani che brillano in cielo, diventa interrogazione sull’unità
e molteplicità del tutto. Essere fedeli alle cose, riserbare loro
quell’attenzione che sola ci restituisce al loro dono, vuol dire
realizzare in sé (“l’anima si fa una, raccolta, contenta”)
quell’uno che “si fa moltitudine d’esistenza”
(p. 55): Gelassenheit, desto abbandono. Ma
se l’uno e i molti non sono scindibili, vuol dire che all’uno
si accede solo mediante la forma e l’individualità di ciascuna
cosa, attraverso la de-limitazione e il confine che racchiude, e preserva,
in ogni nostro luogo, “la vita che ci fu accordata”: il profilo
riconoscibile degli anni, così facile a sperdersi nelle parole
e nel senso, “si staglia, fermo, come la linea d’orizzonte
di un paesaggio. E questa linea ha sempre la purezza di un limite, come
diversamente segna il confine del mondo con la luce il profilo dei monti
e quello più dolce dei golfi. […] E la mente si accorge che
s’acqueta solo là dove un limite s’accende, come nel
riso delle cime a sera, e nel riso del mare, di fronte alla sera”(pp.
56-57).
Ma questa “felicità della mente”, la grazia in cui
il vivo torna a splendere, è conquistata attraverso l’ascesi
filosofica, l’interminabile cimento nel deserto delle parole e nelle
città del tempo. Il “crollo” dei bastioni della mente
(“Gerico è presa. La vita che resta / non ci appartiene:
è la breve ventura d’essere interamente in ogni cosa, / l’immensa
squarciatura”, p. 86) che solo lo stato poetico, la parola essenziale
dell’infanzia e dei mistici, “la lingua del vivo”, compie
il dono di questa restituzione, facendoci appartenere al segreto della
felicità “diramata” dell’albero, che si amplia
nel largo quanto più sale nell’alto, o alla giustizia della
terra, profondità e levità di un corpo celeste. La poesia,
così, diventa pensiero del cuore in cui si realizza l’unità
di sé con l’Uno, la condizione unita, raccolta, infine, dalla
dispersa molteplicità, “punto vivo nella luce dell’alto
e nella felicità del largo”: non salva nell’uno, oltre
le cose, ma intera, unita, una in ciascuna e in tutte.
Il libro è notevole per la sua portata speculativa, qui espressa
in tutta la sua altezza e originalità di approccio, in un modo
che integra e arricchisce con una preziosa sfaccettatura la produzione
teorica dell’Autrice, impegnata nell’elaborazione di una teoria
della “conoscenza personale”. In effetti, si potrebbe dire
che quell’“annuncio di un’individualità essenziale”
che è la fisionomia, il volto di ciascuna cosa si dà a vedere
anche nei paesaggi che compaiono nella loro essenziale esemplarità
nel libro conferendogli la sua indimenticabile aura, e in tutte le figure
del vivo. Ma del pari notevolissima è la scrittura, che rende possibile
il risultato speculativo, e in particolare le poesie che costituiscono
il controcanto dell’andamento meditativo. Qui Roberta De Monticelli
si conferma come una delle voci poetiche più ferme, cristalline
e “metafisiche” dei nostri anni, ma anche più prossime
alla grazia del rivelarsi del mondo, ai suoi aspetti più inappariscenti,
come nell’Elegia del monaco Daniele
(“E io senza respiro / io Daniele stilita, qui serrato / nella torre
del petto, incarcerato / qui, nell’alto ricetto del pensiero / -
oh implacato splendore senza fonte / e senza ombre - anch’io chinai
la fronte / fra le dita dischiuse a varco, e piansi / di conoscere il
largo della vita”). Indimenticabili sono alcuni componimenti, ma
tutti esemplari, di una poesia coltissima,
tuttavia mai compiaciuta sterilmente dei suoi tecnicismi, né vicina
a una qualche attuale maniera, bensì parola dell’anima, forma
dell’attenzione, “esercizio dell’espressione fedele”,
e dunque preghiera (molti dei componimenti sono “preghiere”,
certamente non “confessionali”, ma espressione di quella venerazione
che - secondo Jünger -, insieme con gli spiriti più alti tutto
il vivo manifesta con la sua stessa esistenza): così, la risonanza
poetica intesse echi di Dante, Luzi, Eliot, Ortese, Char, Penna, Rebora,
Ungaretti, ma anche di Agostino, Plotino, Giovanni della Croce, Tommaso
d’Aquino e altri dottori angelici. Perché la parola poetica
qui non è sfogo soggettivo, compiacimento estetizzante dell’io,
o peggio, algido chimismo disanimato; ma è dedizione all’“anima
lucente” della poesia, a quel suo essere lauda,
pensiero del cuore, ringraziamento e salvezza di quel punto di singolarità
che è ogni volta e sempre di nuovo la scintillazione del vivo,
di cui anche l’esistenza di ciascuno fa parte: “Non ti chiedo
di distinguermi dagli altri / ma di distinguermi in te. // Di ridurmi
a me stesso, a questo punto di ciò che è. // E tutto sarà
salvo / tutto raccolto e quieto // in quest’ora contento. // Io
sarò nuovo, allora / in riva a te. // Nella luce del mare, un punto
vivo”.
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