Stefano Rossattini,
Un villaggio straordinario. Villaggio Morelli, il più grande
sanatorio d’Europa. Idea e ideali fra medicina, storia e natura
Litostampa Istituto Grafico, Bergamo 2002
http://www.litostampa.it/
Il Domenicale, 7 giugno 2003
http://www.ildomenicale.it |
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Recensione di Luisa
Bonesio
In un bell’articolo sul “Corriere della
Sera” del 1952, Egisto Corradi così descriveva l’inconsueta
apparizione dei sanatori di Sondalo, in alta Valtellina: “A qualche
misterioso stabilimento o laboratorio od officina segreta pensa subito
chi si trova a percorrere di notte la strada Tirano-Bormio. Sulla sinistra,
là dove i contrafforti montuosi formanti la valle leggermente si
aprono, migliaia di lumi si accendono d’improvviso nel nero velluto
delle abetine e delle pinete […] Chi si trova ad osservare questo
spettacolo non può non pensare vagamente a misteriose città
del futuro, non può non pensare anche per un solo attimo di essere
capitato furtivamente sotto le guardate mura di una città atomica.
A meno che non sappia, s’intende”. Oggi chi percorre quella
stessa strada, diventata più veloce per portare più rapidamente
sciatori e turisti verso l’Alta Valtellina, non può più
scorgere le “novemila lampade” accese nei padiglioni nel periodo
del loro funzionamento a pieno regime. Tuttavia, purché si abbiano
occhi per vedere e non si confondano – come talora accade –
gli edifici dell’imponente complesso sanatoriale con una proterva
speculazione edilizia, lo spettacolo di quella cittadella arroccata sul
monte, circondata da fitte abetaie, non può non destare una sopresa
mista a inquietudine, come di fronte a una città futuribile di
Sant’Elia o alle rovine di una Palmira alpina, in cui le forme dichiaratamente
novecentesche e razionaliste del “Villaggio sanatoriale Morelli”
si caricano di un’aura arcaica, attraversate e raccordate come sono
da muraglioni, arcate, viadotti in pietra che fanno pensare agli acquedotti
e alle strade romane, e costellate di parchi, giardini pensili, rotonde,
ai tempi arricchite di migliaia di essenze pregiate, aiole fiorite, rampicanti.
Tracce di uno splendore decaduto, da quando i progressi della medicina
hanno quasi debellato l’incidenza di massa della tubercolosi, che
dai primi del Novecento fino quasi agli anni ’40 aveva portato alla
costruzione di numerosi sanatori in Italia e fuori, in particolare lungo
l’arco alpino, ritenuto luogo elettivo di cura grazie alla salubrità
e secchezza dell’aria.
Con l’afflusso sempre minore di malati di tubercolosi, l’imponente
Villaggio Sanatoriale, voluto dal tisiologo Eugenio Morelli, subirà
la trasformazione in struttura ospedaliera, assimilato alle dolorose e
anguste ragioni dei bilanci da quadrare: così per lunghissimi anni,
inutile dirlo, i primi tagli di risorse si ripercuoteranno sulla manutenzione
degli aspetti “estetici”, così fortemente caratterizzanti
il complesso, e giardini, piante monumentali, rose, glicini, il bosco
intorno subiranno un penoso degrado, o saranno semplicemente tagliati
per far posto alla ferraglia sempre più invasiva delle automobili.
Entrato in una dinamica essenzialmente economica, con inevitabili ricadute
sull’occupazione, del “Morelli”, trasformato secondo
la logica aziendale della sanità, non si parla, nelle cronache
locali, che per le questioni mediche e gestionali. Sembra che quasi nessuno,
a partire dai molti che ci lavorano e che devono recarvisi da tutta Italia,
si accorga della straordinarietà urbanistica, progettuale ed estetica
di questo luogo mirabile.
Rompe finalmente questa indifferenza il libro di Stefano Rossattini, che
è stato uno dei direttori recenti dell’Azienda Ospedaliera
ed ha potuto appassionarsi alla bellezza di questa singolare eterotopia
sanatoriale, raccogliendo una vasta documentazione medica, storica, con
le testimonianze dirette di quanti avevano partecipato alla sua costruzione
e successivamente vi hanno lavorato. Dalle pagine del libro, che pure
costituisce un importante contributo alla storia della medicina e dei
metodi terapeutici, dai racconti dei protagonisti dell’edificazione
– locali che contribuirono a sbancare a mano le pareti rocciose
della montagna per insediarvi un progetto realizzato da ingegneri della
capitale -, ma soprattutto dal repertorio fotografico, emerge con forza
impressionante il carattere titanico dell’impresa, voluta dal Fascismo
come una struttura che potesse accogliere grandi numeri di malati, accanto
ai sanatori già esistenti sulla stessa montagna: Pineta di Sortenna
(1901, il primo sanatorio italiano), l’Abetina (1921), Vallesana
(1929); e nei dintorni del capoluogo Sondrio, l’imponente sanatorio
di Prasomaso, iniziato nel 1905. A differenza delle strutture più
piccole, dello splendido liberty sognante dell’architetto Giuseppe
Ramponi a Pineta – ancora visibile e mirabilmente conservato e restaurato
– o dell’edificio principale dell’Abetina, impreziosito
di ferri battuti e vetrate multicolori, il Villaggio Sanatoriale, progettato
negli anni maturi del razionalismo e iniziato nel 1932, appare come una
sorta di capitolo conclusivo dell’architettura sanatoriale.*
Cittadella autosufficiente (dal funzionamento energetico, all’approvvigionamento
idrico con un acquedotto ad hoc, ai trasporti interni originariamente
assicurati, almeno per le merci, da un sistema di teleferiche che raccordava
i padiglioni di degenza agli edifici dei servizi e ai magazzini), con
una struttura urbanistica d’impianto cittadino, viali alberati e
illuminati, centro direttivo e amministrativo, chiesa, piscina, campo
da tennis e di bocce, negozi, cinema, anfiteatro, centrale termica, stazione
meteorologica, ufficio tecnico, emittente radiofonica interna, ecc., il
Villaggio ancor oggi si distacca dai numerosi altri singoli edifici sanatoriali
sopravvissuti, proprio grazie alla sua completezza di struttura microurbana,
che ricorda le città ideali del Rinascimento o i sogni utopici
di Bruno Taut.
Il luogo naturale, scelto per le qualità salutari ed eccezionali
del clima, accoglie ed esalta la cittadella archeofuturista, che non sembra
nemmeno progettata da artificio ingegneristico, ma quasi promanata per
generazione spontanea dalle pendici del Monte di Sortenna. In realtà
lo sfalsamento di piani dei vari padiglioni sul ripido declivio, i diversi
colori di cui furono dipinte le facciate (dopo che si appurò che
la rigidezza del clima invernale non avrebbe consentito lunga vita alle
lastre di travertino di cui, all’uso romano dell’edilizia
di regime, li si voleva in origine rivestire), la geniale composizione
dei volumi e dei colori, rispondenti sempre a precise esigenze funzionali,
la sobria ma assolutamente consapevole disposizione d’insieme, e
soprattutto l’onnipresente articolazione delle varie parti tramite
archi, arcate cieche, muraglioni, scalinate di pietra granitica lavorata
a mano conferiscono un’impronta di potenza titanica che sembra gareggiare
con l’imponenza delle montagne attorno.
Perché in realtà è la montagna la vera protagonista
di questo luogo. Quella che i ricoverati, sdraiati lunghe ore sulle vaste
terrazze, estate e inverno, erano costretti a rimirare (“Questo
mirabile mondo che ci sta dinanzi cominciava a seccare per la sua monotonia
da cartolina illustrata”, scriveva Salvatore Satta nel suo racconto
giovanile significativamente intitolato La veranda),
immote quinte di pietra, boschi e vette nevose, o l’immaginifica
apertura della valle verso l’invisibile pianura e la vita cittadina
e “normale”; ma anche quella che sempre occhieggia e incombe,
altissima ed erta, in fondo al pavé di porfido o traguardata dagli
archi delle gallerie. Ed è il monte, nella sua durezza atavica,
su cui gli abitanti coltivavano magri campi e sfalciavano il fieno, essendo
versante solatio, lo spazio conteso con fatica immane, con l’invenzione
di soluzioni e il ricorso a strumenti innovativi in cui la tecnica, alla
fine, è plasmata essa stessa in una visione più forte, in
una concezione funzionale espressa e risolta in forma, in qualità
architettonica ed estetica potente e quasi visionaria.
Oggi che il grande ex sanatorio non è più quella macchina
a pieno regime, perfettamente mantenuta in funzione da squadre di tecnici
e addetti, forse la sensazione da centrale atomica è attenuata,
anche perché i nostri tempi sono abituati a ben altre smisuratezze.
Ma avventurarsi nel silenzio e nell’incipiente decrepitezza di questa
moderna eterotopia, cogliendone la capacità di manifestare lo spirito
del luogo in modo inusuale, certo più diretto ed efficace di molti
pii tentativi di non offenderlo, è come vedere concretizzata la
visionarietà da Neue Sachlichkeit
del mondo dell’Operaio jüngeriano, non nell’orizzonte
metropolitano e fabbrile, nei paesaggi da cantiere e da officina, ma in
un contesto da Wildnis primordiale, dove
non si dovrebbe che passare al bosco. Quella selva che circonda fitta,
tenace e proliferante i confini della rocca sanatoriale e vi lascia all’interno
sue appendici; quelle abetaie verticali che si stagliano anch’esse
ovunque si volga lo sguardo e fanno da sfondo straniante a edifici di
foggia sironiana, fino all’alta ciminiera di laterizio della centrale
termica che svetta in accordo prospettico con il camino naturale formato
dall’incanalarsi della parete rocciosa alle spalle.
Ma non si tratta di un apprezzamento estetizzante, come quello che per
lo più si ha contemplando qualcosa che il passato – per quanto
prossimo sia – ha lasciato. Certo, è quasi inevitabile gettare
anche su queste “rovine del moderno” uno sguardo nostalgico.
Il “piacevole orrore” delle rovine non ha ancora finito di
esercitare il suo fascino, soprattutto quando un effetto di numinosa arcaicità
proviene dal cuore metallico del Novecento più aggressivo. Ma questa
Atlantide alpina, la cui monumentalità discreta e decisa (la forma
allungata, il colore bianco e gli arredi del IV padiglione ricordano un
incrociatore, per precisa volontà di Mussolini) è abissalmente
lontana da qualsiasi retorica e falsificazione progettuale, era pur stata
realizzata a scopo terapeutico. E da questo punto di vista, i risultati
sono stati più che eccellenti. Eppure, se si pone mente ai moderni
edifici ospedalieri o a case di cura recenti, persino al coevo dispensario
antitubercolare firmato da Ignazio Gardella ad Alessandria (1936) la differenza
balza agli occhi. Perché, appunto, qui dell’idea di risanamento
sanatoriale non facevano parte solo la scelta climatica, la collocazione
altimetrica, l’esposizione al sole, l’alimentazione e il riposo,
oltre che le terapie mediche; ma anche la valutazione terapeutica e curativa
della bellezza, delle qualità estetiche e paesaggistiche, della
confortevolezza degli edifici come degli spazi circostanti. Non si spiegherebbe
altrimenti l’attenzione anche ai minimi dettagli (che infatti sono
stati i primi a scomparire, con il passaggio a una gestione guidata principalmente
da ragioni di bilancio finanziario), dalle varietà dei fiori delle
aiole alla scelta degli alberi, alla realizzazione di terrazzamenti che
ospitano broli di glicine, panchine, spiazzi a giardino. Cura della forma
e dell’armoniosità estetica che non voleva essere decorativismo
fine a se stesso, ma suggerire la ricomposizione dell’armonia della
cui perdita la malattia è una manifestazione. D’altra parte,
la tubercolosi, che aveva colpito a livello di massa i soldati tornati
dai fronti delle guerre, ma che era una tipica malattia incrementata da
certe attività moderne, dal lavoro industriale alle miniere, all’inquinamento
industriale dell’atmosfera, può essere considerata anch’essa
nel novero degli effetti dell’insensata accelerazione tecnica della
modernità.
E di fronte alla pericolosità e contagiosità di questo morbo,
prima di ricorrere a una medicalizzazione tecnicistica e disumanizzante,
l’intuizione del primo costruttore di sanatori, Ausonio Zubiani,
che la purezza dell’aria e una stasi forzatamente contemplativa
fossero la chiave risolutiva della malattia, va collocata nel contesto
propriamente paesaggistico in cui avvenne: lo spirito del luogo, assecondato,
è intrinsecamente salubre e risanatore; la contemplazione di paesaggi
selvaggi e potentemente espressivi non è solo un sollievo e una
ricreazione momentanea. La montagna, al di là dell’estetizzazione
decadente di malattia e natura, elargisce il suo incanto a chi lo sappia
captare. E questo ancora oggi appaiono i sanatori del “villaggio
meraviglioso”: una sorta di dispositivo per trasformare la bellezza
della natura in forza di risanamento e risveglio. Lezione inattuale, in
un mondo che presume di rendere funzionale e calcolabile, trattandola
come una merce, la malattia, costruendo edifici di cura la cui sola vista
è ammorbante e deprimente, conforme all’orizzonte di malefica
informità in cui per lo più ci tocca vivere. Oggi il complesso
sondalino è sotto la tutela delle Belle Arti ed è classificato
a livello di interesse europeo, a riconoscimento del suo eccezionale valore
architettonico e urbanistico. Ma altri complessi, più antichi e
di altrettanto valore architettonico, rischiano di scomparire o di degradarsi
irrimediabilmente. Un patrimonio che altre nazioni correrebbero a valorizzare,
trovando destinazioni d’uso adeguate e trasformandolo in ricchezza
artistica, memoria e orgoglio del proprio territorio.
* Cfr. L. Bonesio, Il "Villaggio"
di Sondalo, in "Notiziario della Banca
Popolare di Sondrio", 95, 2004, www.popso.it.
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