Recensione di Luisa
Bonesio
Una montagna aspra, intransitiva, pietrosa, ma anche
animata e fluente di acque, è quella che i versi di Roberto Taioli
fanno lampeggiare per intermittenze, come scaglie di mica sulla roccia.
Più che ossimorica, la montagna dell’Alpe Cortot e della
Val d’Ayas è luogo eracliteo di compresenza di opposti: luce/buio,
aperto/chiuso, immobile/fluido, effimero/eterno, stabile/deperibile, ecc.,
che la natura metafisica, prima ancora che empirica, del luogo mostra
e dispiega nell’innumere e talora inappariscente arco delle manifestazioni.
Ma, come accade per siti montani di cui si possa, tramite l’intuizione
del cuore, spiare la paradossale forma di vita postuma, l’esistenza
petrigna che pare attestazione d’intemporalità dopo l’allontanamento
degli umani e delle loro profane frequentazioni, anche Cortot è
colta, nei versi di Taioli, in un progressivo ritrarsi nel silenzio e
nell’eterno, proprio nel momento in cui lo sgretolarsi delle rovine
umane (gli alberghi fatiscenti e abbandonati, l’ammutolire delle
voci, lo spegnersi o il ritorno intermittente – come l’eco
di una cascata – dei ricordi, l’abbandono dei turisti) parrebbe
sancire l’irrimediabile caducità di tutte le cose, e consegnare
la montagna all’archivio dei paesaggi d’antan,
come uno di quei patetici luoghi della mente che, al massimo, troverebbero
posto nel cimitero delle immagini private.
La profonda consuetudine dei versi di Roberto Taioli con i paesaggi della
Valle d’Ayas (Ciclo d’Ayas, 2000,
Altobosco, 2001) invece, consente di cogliere
limpidamente la natura intemporale e il senso metafisico di un luogo,
una volta che ad esso si rivolga un’interrogazione misurata e attenta,
consapevole del proprio intrinseco limite umano e individuale. Non c’è
retorica alcuna sulla sublimità del paesaggio, l’effetto
anche involontariamente oleografico è a priori sgretolato proprio
come quegli alberghi dai nomi pittoreschi e di maniera, espressione di
un’estetica turistica del resto costitutivamente ondivaga ed effimera
come ogni moda. L’espressione è duramente messa al confronto
confrontata con l’incommensurabile sprofondo del silenzio che contiene
e rende possibile ogni parola, le immagini con la nitidezza abbagliante
che traluce da ogni più inappariscente traccia o elemento della
natura. Paesaggio interstiziale che resiste per sempre più labili
impronte, o segni consunti nelle cartografie umane, la stessa Cortot si
cancella e si ritrae nell’invisibile: “Nessuno ti vede / nessuno
ti sente: / ti ignorano quasi le mappe / se non più giù
dove il rivo / diede acqua alla vita” (p. 28). Eppure, paesaggio
salvo nel suo stesso disperdersi e decadere: “Tutto si perde / non
molla nessuna vite/ del piccolo crocicchio di vita / di silenzi e sapori
/ nulla svapora nell’aria / nulla si perde” (p. 26), seppure
dolorosamente segnato dalla caducità, ravvisabile anche nello svuotarsi
stagionale di Ayas: “Tutto è più vuoto: / sacro come
le pietre / del paese vecchio / e le cappelle dei santi abbandonate /
a destra e a sinistra della sponda del fiume / dove tutto scorre e muore
/ la vita della terra la sabbia / l’anima mia” (p. 48).
È proprio il ritrarsi silente del luogo al di là dei più
evidenti segni umani, in quella “dolce misura del tempo intatto”,
che restituisce l’evidenza che “tutto si perde” e nondimeno
“nulla può finire” e “nulla si perde”,
come in una sorta di operazione ermetica in cui si sciolgono i nodi dei
contrari, si smussano “le imperfezioni / i salti di natura i vuoti
/ sempre pieni / i pieni sempre vuoti”, e così si “fa
vedere ciò che / non si vede” (p. 36). Appare il volto tras-figurato
della natura: non quello proiettivo dei sentimenti e dei voleri soggettivi,
bensì quello essenziale cui ci si approssima per ascesi dell’immaginazione,
ai cui luoghi si giunge con la fatica di un’ascendere in cui il
pensiero tace, finché non si apre il cielo o uno specchio di lago
distanzia, smaterializzandola, la realtà: “Senza più
vento / dove solo si guardava / non si correva più. Il lago ci
mangiava / ci divorava il suo stelo d’acqua /appena mossa”
(p. 13). Il moto, l’azione, il volere si placano di colpo nella
contemplazione che svela la vera natura di pellegrinaggio di questo salire
al “tempio di pietre e d’erba”: se il monte è
“una chiesa a cielo aperto / mai chiusa e sempre orante” (p.
25), la stessa Cortot è “convento di pascoli” che si
stringe “in un pugno come ai piedi / di una croce” (p. 12),
“Fiéry si erge in alto / come un santuario / duro e lontano
punto” (p. 33): il senso del salire è l’alto stesso,
“più su del fiato”. Lontanissimo dall’illusione
alpinistica della conquista della vetta, la fatica, svuotando il chiacchiericcio
dell’io, anziché promettere l’attingimento di una meta,
prepara all’urto di quell’indicibile alterità che,
pur vicinissima e talora tangibile, si sottrae o traluce in solitudine.
Seppure indubbio e forte traspare il senso di una comunità elettiva
radunata dal luogo (“Siamo tutti qui / anche gli assenti”,
p. 38), l’incontro con la sacertà del monte, nelle sue distinte
manifestazioni, non può che avvenire in solitudine. Ma, ancora
una volta per compresenza d’opposti, il totalmente manifesto, la
scintillante bellezza, l’imponenza della montagna celano proprio
ciò che esprimono: un Dio nascosto nella natura, quasi in agguato
(“Dio nascosto tra le rupi / le baite la fungaia e tra le pigne
/ ascolta il respiro”; “i monti / ove Dio è nascosto
/ alle sorgenti di te”); una divinità selvatica e remota,
celata nell’umiltà inappariscente delle tracce (“Jahvé,
il Dio dei monti / delle terre incolte e dei lavacri / delle pietre sepolte
/ dei passi perduti / delle mandrie e dei falchi / degli umili remoti
passaggi / sulla neve ghiacciata”). Ostensione del mistero nella
natura, il “Dio nascosto / che scende nelle acque biancastre / si
cala nei meandri dove i boschi / fanno fitto il mistero del vivere e del
morire”, si è ritirato nell’incomprensibilità
ed è stato perduto nella distratta e semplificante miscredenza
moderna (“L’Uno si è diviso / franto come briciole
di pane / abbandonate. / Dispersa anche l’immagine / in increduli
volti”) (p. 52).
Montagna essenziale ed ermetica, quella che i versi di Taioli restituiscono,
mantenendola intatta nella sua intraducibilità e inattingibilità,
è sostanziata di pietra ed acque, polarità di quella compresenza
di fluire e stabilità che ne identifica la natura di “eterno
presente” (p. 42): lo scorrere dei torrenti, il ristagno e i meandri
dei fiumi, “Ayas fatta d’acqua”, le “stille d’acqua”
e i “veli sottili del ghiaccio”; ma soprattutto lo specchio
mobile dei laghi d’altura, “il tremolio dell’iride /
il fremito ombrato gridare”, “le acque del lago morbide /
appena increspate da mille solchi / e i fiori a riva piegati” (p.
19). “Mobile volto” di Dio, l’acqua è forse la
presenza più forte, tra gli elementi naturali, in questi versi
scabri e densissimi, che scandagliano anche la sua dimensione ingannevole
(i meandri, le stagnazioni), non meno di quella oscura e nascosta (penso
alla mirabile ultima parte del poemetto Nostos):
l’elemento equoreo, nei suoi vari stati e trasformazioni, nella
costitutiva fluidità, è ciò che dinamizza quella
staticità (sia pure apparente) della montagna, cui Taioli allude
con la figura (anch’essa eraclitea) del sonno. L’Alpe Cortot,
che fin dalla prima poesia appare dormiente, ammutolita e disertata dalle
voci umane, (“dormiva da sempre / fin quando nessun l’abitò
/ e prese il cielo / smarrì la voce nelle gole / profonde di pietra”,
p. 28), è l’emblema di una vita alla cui scala temporale
non appartiene l’umano. In essa stanno “le piante antiche
/ scabre innocenti”, “più eterne del mondo / del breve
giorno che passa / e lascia sera” (p. 20). Un tempo innocente fatto
di sonno, ritmi eterni, ascolto silenzioso, nel quale rientrano, nella
loro vita postuma, anche le rovine degli edifici umani, finalmente tacendo,
o il temenos di un orto d’altura: “Qui
il tempo ha quiete / muore lo scenario / in un respiro muto” (p.
17).
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