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DI GEOFILOSOFIA

Franco Monteforte

Monodia della natura

 

Prefazione a Luisa Bonesio,
Lapidario. Breviario di meditazione alpestre

Ulivo - http://www.edizioni-ulivo.ch
Balerna (Svizzera) 2003



M. Sironi, Montagne, 1950 ca


Ci sono molti modi di manipolare la natura con la parola. Il più insidioso è quello di celebrarla come il mero scenario dell’attività dell’uomo, l’ambiente fisico disponibile, in diversa misura, alla sua intelligenza tecnologica di homo faber. Il più presuntuoso è quello di farne l’immensa discarica del cuore, di rivestirla dei nostri sentimenti, quasi fosse materia inerte, argilla sempre pronta a plasmarsi sulle infinite trasmutazioni dell’anima, auriga dei nostri sublimi entusiasmi, veronica dei nostri smisurati avvilimenti.
Luisa Bonesio sfugge ad entrambi queste tentazioni e si muove invece solitaria sulla difficile rotta che evita la Scilla dell’ingannevole ecologismo e la Cariddi di uno scontato romanticismo.
In questo Lapidario, infatti, la natura non è materia inerte per la nostra vita, ma è la vita; non è il luogo dell’infinita effusione dell’anima, ma ha essa stessa un’anima, di cui quella dell’uomo è parte e da cui non cessa di patire il distacco.
La sua “meditazione alpestre”, fatta di immagini di intensa brevità, lapidarie appunto, scorre come una lenta, ininterrotta monodia contemplativa, priva di sbavature psicologiche e di contorsioni intellettuali, come l’acqua di una fontana nella quieta piazzetta di un villaggio alpino. Il suo scorrere non lacera il silenzio, ma ne è parte, non ci distrae dal muto dialogo delle cose, ma lo asseconda, ne è sonora colonna, l’ossimorica voce.
Allo stesso modo questa poetica meditazione ha il ritmo cullante e malinconico di una nenia, di una dolcissima trance verbale in cui le immagini zampillano con spontanea naturalezza, intrise di pensiero poetante, pensiero dell’occhio e dello sguardo, pensiero visionario che contempla con rispetto le cose e nella loro epifania ne intuisce l’enigmatica vita e l’abissale profondità.
Nessun eccesso espressivo in questo canto, nessun orgoglio della parola, ma “una lingua essenziale e schiva - confessa la Bonesio - come le pietre e le foglie, [...] un linguaggio scabro e polito come i molteplici steli dell’erba”. La parola accarezza le cose, ne asseconda la mutevolezza, ne registra il cangiante ritmo vitale, tende a fondersi empaticamente con esse, a suonare all’unisono con la natura, a divenirne quasi il respiro, il primordiale pneuma in cui tutti gli esseri sono contenuti.
Da qui la sua vibrante esattezza e la sua sacrale preziosità che si nutre talora dell’arcaico sortilegio di termini come “nòstos” o “témenos”, “Hurqalya”, in cui risuona un’esoterica, primitiva religiosità, la nostalgia dell’unità originaria del Cosmo che trasluce dalla mutevole apparenza delle cose e dalla frammentaria separatezza delle cose, che fa della vita un poetico paesaggio di continua rovina. In ogni frammento degli esseri si intravede, per chi sa vederla, la Totalità dell’Essere.
La sua meditazione diventa così non un conoscere, ma un riconoscere, non una cognizione, ma un’agnizione. Il pensiero non riflette sulle cose, ma riflette le cose. L’anima si fa specchio della natura, ma non ne è il passivo riflesso, ne è la riflessione, cioè il riflesso consapevole e vitale. In questa riflessione, mente e cuore, natura e uomo, passato e presente, spirito e materia, vivono l’esperienza dolorosa della loro separatezza e la nostalgica tensione alla loro armonica rifusione così magnificamente espressa dalla grave armonia che governa il ritmo monocorde di questa splendida prosa.
Affiora qua e là in essa una tenue geografia dei luoghi, Sondalo, il Sanatorio, il monte Sortenna, che disegna in controluce nel tessuto verbale una mappa discreta dell’esistenza grazie a cui la neve, l’autunno, una pietra, un fiore, sono sempre quella neve, quell’autunno, quella pietra, quel fiore, vissuti in un dato tempo e in un dato luogo, ma sono insieme anche la neve, l’autunno, la pietra, il fiore eterni, senza tempo e senza luogo, quasi che di essi Luisa Bonesio volesse darci la vita prima della vita, la loro perfetta essenza prima di ogni caduca apparenza, lo spazio armonico della Totalità originaria dell’essere, dove, dice Hölderlin, “affrancata dal presente è in fiore / Una bellezza senza mutamento”.

 

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