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DI GEOFILOSOFIA

Luisa Bonesio

Spaesamento, perdita di luogo e rilocalizzazione dell’identità culturale

2. Memoria e conservazione

Concepire lo spazio come una dimensione puramente geometrica da riempire con volumetrie arbitrarie significa anche aver lasciato spegnere quella che Ruskin chiamava la "lampada della memoria". Al contrario del gesto iconoclasta della modernità, il compito dell’architettura è anche quello di tramandare, non per un citazionismo eclettico o una patinatura kitsch, ma per la scelta di accogliere consapevolmente un’eredità trasmessaci. "Quante pagine di incerte ricostruzioni del passato potremmo spesso risparmiare in cambio di pochi massi di pietra rimasti in piedi l’uno sull’altro", scriveva Ruskin, affidando all’architettura il compito di darsi una dimensione storica e di "conservare quella delle epoche passate come la più preziosa delle eredità". È così che essa "congiunge epoche dimenticate alle epoche che seguono, e quasi costituisce l’identità delle nazioni", in modo simile all’operare in conformità al riconoscimento del fatto che "la terra l’abbiamo ricevuta in consegna, non è un nostro possesso". Il primo compito che l’architettura dovrebbe darsi è quello di liberare molti spazi da molti dei suoi stessi prodotti recenti, decostruire il proprio orizzonte progressistico, la propria tecnolatria, demolendo, letteralmente, quanto costituisce solo sfregio estetico e sprezzo dei luoghi. Per accedere a questa determinazione, occorre dotarsi di uno sguardo capace di leggere e interpretare il territorio come un processo storico di cui siamo diretti eredi e prosecutori, dunque responsabili. Con meno paradossalità di quanto appare, l’etica dell’architettura dovrebbe contemplare una necessaria opera di pulizia, una preliminare tabula rasa che restituisca molti luoghi alle loro peculiari proprietà formali, simboliche e ambientali, senza aspettare che quest’opera sia attuata qua e là dalla natura, dal tempo o dalla intrinseca babelicità che attira la distruzione.

Se fin dai suoi inizi tardo-ottocenteschi, la tecnica ha ridotto l’orbe a un paesaggio fabbrile e a un immenso, disarmonico cantiere, facendo del dissesto perenne la legge strutturale della sua avanzata, "occorre tener presente che, se vogliamo riferirci al mondo odierno dell’uomo, cioè a una civiltà per quanto in crisi estesa a tutto il globo e quindi non più estensibile materialmente, ma solo qualitativamente, si tratta di una costruzione a stadio molto avanzato. L’area assegnata definita, occupata prima parzialmente da sporadiche e precarie strutture, poi totalmente da più strutture separate, ma stabili e intensive, ha finito per raggiungere i limiti di sfruttamento". I rapporti tra aree ad elevata densità e impatto abitativo o industriale devono necessariamente essere controbilanciate da aree vuote o rade, e non è possibile alterare un certo equilibrio sia all’interno del territorio stesso che fra territori diversi: "Negarli è solo futile, velleitario, dispersivo e alla fine destinato all’insuccesso, al rovesciamento con risultati opposti, accendendo un processo depressivo tanto più grave, quanto più grave è la manomissione compiuta".

Allora in questo cantiere che ha estensione tendenzialmente planetaria ma che esercita una devastante incidenza in luoghi sempre specifici, è giunto il momento di pensare non più in termini di ulteriore espansione e intensificazione dello sfruttamento, ma di riuso, manutenzione, restauro, abbellimento, di periodico riassetto e di correzione di abusi ed eccessi. Non si tratta di opzioni di basso profilo, rinunciatarie, se si pensa che è proprio a causa della perdita di consapevolezza dei limiti intrinseci di ogni costruzione umana (e del contesto che la rende possibile), che la civiltà corre il rischio di autodistruggersi: "La trasformazione della terra da parte dell’uomo, dapprima per lunghissimo tratto irrilevante, è andata accentuandosi man mano che crescevano forze operative della società umana, giunte a condizionare la vita biologica spesso in modo devastatorio autolesivo": ci troviamo su quella linea (o forse l’abbiamo già oltrepassata) in cui la Terra richiede uno sguardo unitario, che non sia solo quello unilaterale e disponente della tecnica o quello, ancor più miope, dell’economia; ma questa consapevolezza globale di aver raggiunto il limite dell’equilibrio deve essere declinata ogni volta nella specificità delle configurazioni territoriali e dei loro peculiari punti di equilibrio e di conservazione. E ogni tessuto territoriale è un organismo complesso e delicato, non appiattibile a semplice superficie disponibile per qualsiasi manomissione; bensì una plurima sedimentazione di temporalità e intenzionalità funzionali diverse, scale differenti e orientamenti differenziati che non si sovrappongono o si elidono meccanicamente, come strati inerti, ma piuttosto si armonizzano in una vitale integrazione e collaborazione resa possibile dalla presenza articolante e vivificante di una stessa matrice di interpretazione e configurazione spaziale e simbolica. Così nei nostri territori "convivono e si integrano la centuriazione romana e i grandi percorsi naturali, gli insediamenti locali propri delle età iniziali ribaditi intatti nel Medio Evo e la città comunale, ricalcante quasi costantemente la colonia romana e la polis preromana; il tessuto e la struttura stessa dei campi è un acquisto sostanzialmente mai perduto, sempre ritrovato, perché intrinseco alla natura dei luoghi e all’uso che dei luoghi l’uomo può farne e seguiterà a farne. Questa è la lezione che il tessuto ci dà: ed è, per chi la sa leggere, una alta lezione al tempo stesso di realtà e di umanità".

 

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