Luisa Bonesio
La fine di tutte le strade. L'esotismo imploso di
Annemarie Schwarzenbach |
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"Hesperos", 1, 2001 |
G. Segantini, Le cattive
madri |
2. L'inquietante familiarità
dell'estraneo
Il naufragio non può che avvenire nella valle
del Lar, “alla fine del mondo”, quasi soglia verso l’ultraterreno,
la cui intransitabilità la fa assomigliare alla morte (21):
lì sembra che tutte le strade che si volevano evitare e quelle
che si sono prese giungano a ricongiungersi, in uno “scenario da
fine del mondo”. La Heimatlosigkeit
viene pienamente assunta dalla Schwarzenbach come il destino dell’esistenza
nella modernità, senza alcuna indulgenza romantica, proprio come
il tema esotico viene riletto alla luce di un impietoso disvelamento della
sua natura di illusoria proiezione dell’anima occidentale e della
sua stanchezza di vivere. La premessa a Morte in
Persia previene la possibile delusione del lettore che non troverà
nel libro avventurosità, né edificazione, né sollievo
dell’evasione: nel mondo della disperazione inaggirabile dell’autrice
che si fa estrema voce della “crisi dello spirito” europeo,
non può essere credibile che davvero “una persona si lasci
trascinare fino in Persia, una terra lontana ed esotica, solo per cedere
laggiù a tentazioni senza nome” (22):
non quella della droga, non quella dell’amore per le donne, perfettamente
perseguite e perseguibili in Europa. Piuttosto, la “rivelazione”
che si rende possibile in Asia, dove “labile è il confine
fra disumano e sovrumano”, è quella dell’insopprimibile
genius loci delle terre in cui ci si vorrebbe
recare solo per sfuggire a qualcosa, che si stende inospitale, opponendosi
nella sua impenetrabilità al desiderio di un consolante e compensatorio
appaesamento. In fondo, la criticata ipersoggettività, gli sfoghi
lirici eccessivamente autobiografici rimproverati all’autrice, soprattutto
nella prima versione del racconto, Morte in Persia,
rivelano in controluce proprio la consapevolezza dell’impossibilità
della fuga decadente o romantica, il miraggio di terre selvagge o incontaminate
in cui rigenerare il proprio esausto io. Piuttosto, esse fanno a pezzi
ogni residuo di soggettività, come l’episodio dell’angelo
indica: occorre sopportare “la desolazione e la solitudine”
di quelle terre, di ogni luogo, in cui si va cercare un’impossibile
palingenesi o la tardiva resurrezione di memorie spente. Perché
ogni terra ha i suoi angeli (o è un angelo, come pensavano gli
antichi abitanti della Persia), e gli angeli hanno la loro
terra, la loro notte, il loro
vento che li accoglie (23),
a differenza degli umani che hanno rinunciato alla patria e alla terra,
costretti a un’erranza ineludibile, in cui, tuttavia, “l’estraneo
può rivelarsi il proprio e il proprio risultare l’estraneo”
(24).
E’ così che partiti per lasciarsi alle spalle il proprio
mondo, quasi subito si prova la nostalgia di casa, e, con essa, la domanda
senza risposta sulla propria identità. “Io: ospite, estraneo,
avventuriero, cos’altro? Curioso, avido di conoscere, impaziente
in viaggio - solo” (25):
aggettivi che fissano, in un’estrema e rarefatta sintesi, le caratteristiche
dell’anima faustiana analizzata da Spengler nel Tramonto
dell’Occidente. E’ perché non “esiste
angolo della terra dove i venti non abbiano accesso”, “dove
non si incrocino strade, dove nessuna strada riporti a casa” (26),
che un viaggio che si oblii felicemente in altro è impossibile.
Al contempo, però, il viaggio è necessario per trovare la
propria terra, per conoscerne davvero il volto, quando un ciuffo d’erba
nel deserto basta a richiamare un mondo che sarebbe rimasto invisibile
nella perennità della consuetudine: “L’erba richiama
centinaia di ricordi, il fieno caldo è un mondo familiare. A casa
i prati confinavano con il nostro giardino, d’estate, all’alba
si sentivano le falciatrici e si aprivano le imposte [...] E prati di
montagna, sul Rigi, sul Mythen, in Engadina!” (27).
E’ così che sull’impervio e schiacciante paesaggio
montano della valle persiana del Lar possono disegnarsi in filigrana i
tratti dei familiari paesaggi svizzeri, in una trasparizione che fa scoprire
o rammemorare il volto della terra patria nelle montagne nei deserti mediorientali:
“La Persia? Paesi lontani? Esco dalla porta bassa della chaykhana
- potrei essere su un alpeggio, lassù sul passo Julier” (28).
Ma questa agnizione imprime un’oscillazione ancor più vertiginosa
alla realtà, alla misura del lontano e del prossimo, del familiare
e dello straniero, facendo smarrire definitivamente l’orientamento:
“Era questa la strada verso la terra promessa? Avrei dovuto evitarla,
tornare indietro, ieri ancora? Avevo osato avventurarmi troppo lontano?
Era forse intervenuta una mano estranea, un caso, per gettarmi su questa
rotta verso l’ignoto? - Questa spaventosa penombra, questa mortale
immensità! - Ciò non mi era destinato, non ne ero all’altezza,
non io avevo scelto questa strada - questo io che un tempo aveva giocato
all’ombra degli alberi frondosi, respirato l’odore del fieno,
dell’erba calda e del terreno umido dei boschi, specchiandosi nei
laghi blu, conquistato ridendo le alture con piede leggero [...], questo
io che era salito su tutte le torri e aveva contemplato quel paese ameno
e prospero […] Ma che serviva porsi tali domande? mi ero lasciato
alle spalle le coste del Mediterraneo, i vigneti e i cedri del Libano
- avevo barattato l’ultima sponda familiare con il deserto”
(29).
L’esperienza dell’erranza e dello spaesamento fa emergere
con lacerante forza la nostalgia di essere “sulle rive di un lago,
a casa”, nella quiete montana di Sils: come se vedere “il
ricco Manzandaran, quintessenza della malinconia” (30)
o lo svegliarsi la mattina in un vecchio giardino persiano scuro e ombreggiato,
o percorrere la strada per la casa di Jalé, con la radice sporgente
all’ultima curva che fa sobbalzare l’automobile, altro non
fossero che tappe della nostalgia di casa, per le “regioni più
amene, con distese di colline verdi, laghi azzurri, vele bianche, serenità”
(31). Così come è
dall’incapacità di situarsi nel proprio tempo (32)
che si è chiamati a percorrere la straniante stratificazione temporale
nel viaggio o nella ricerca archeologica, quando “i limiti tra i
secoli sono sospesi, gli antichi monumenti sono l’immagine dell’eterno
ritorno e le tracce transitorie delle ore sono i segni dell’eterna
armonia” e ci si può illudere di un’estatica sospensione
del tempo, senza legami, ricordi che annodino corrispondenze, ombre che
si frappongano tra sé e il mondo, di poter sopportare il silenzio
disumano che domina le rovine o il vento del deserto che sospinge la marea
gialla della sabbia del deserto. Per la tattica di elusione qualsiasi
meta è in fondo equivalente, e solo “alla fine di tutte le
strade” (33)
si comprende che non una meta, ma la partenza è la ragione profonda
del viaggio, “luminosa tristezza delle sere d’estate ai margini
di città straniere dove si respira sempre aria di partenza - cammelli,
asini, cavalieri con berretti di pelo d’agnello; la porta di piastrelle
colorate si apre per farli uscire, fuori inizia il deserto, scompaiono
in una nube di polvere...” (34).
Ed è nella poesia, di sapore testamentario, dedicata a Sils (35),
che ancora una volta il paesaggio dell’Engadina (“l’anello
saliente delle cime montuose”, il “rivo ameno / che nella
canicola meridiana, all’epoca del raccolto, / ruscella copioso su
pietre argentate una stillante frescura, / e all’abbeveratoio, /
dove, la sera, sostavano scuotendo le criniere, cavalli dal manto dorato”)
e quello persiano (il “deserto”) si trovano apparentati e
quasi sovrapposti come un unico “tessuto”, nel cui vertiginoso
intreccio si dà a vedere la “ricerca della patria”.
Non Sils, non Persia; ma, in fondo, Sils e
Persia, laghi engadinesi e piramide del Damavand: come, non molto prima
di Annemarie Schwarzenbach, aveva riconosciuto, nella sovrapposizione
immaginale dei medesimi luoghi, Nietzsche, nomade ed errante, che nel
paesaggio di Sils aveva visto chiarità mediterranee e profetici
deserti persiani, approdando infine alla sua terra d’elezione.
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21. A. Schwarzenbach, Morte
in Persia, cit., p. 30 e p. 37.
22. Ivi, p. 10.
23. Anche se, per questo, non conoscono i paesaggi degli altri: “non
conosco i miti paesaggi che tu chiami patria”, dice l’angelo
al protagonista (A. Schwarzenbach, La valle
felice, cit., p. 107).
24. C. Resta, Il luogo e le vie. Geografie
del pensiero in Martin Heidegger, Angeli, Milano 1996, p. 93.
Di particolare importanza per l’analisi dell’erranza e
della “migrazione del luogo” è il capitolo 2, “Radici”.
25. A. Schwarzenbach, La valle felice,
cit., p. 45.
26. Ivi, p. 41.
27. Ibidem.
28. Ivi, p. 16. In Morte
in Persia, cit., pp. 22-23, era scritto: “Sulla sponda
opposta, di fronte all’accampamento, su una collina ghiaiosa
sorge la ciajkhana. Come le nostre baite situate sugli alpeggi più
elevati del passo Julier, anch’essa è fatta di pietre
rotonde, ed è posta al riparo del declivio, in modo che il
tetto e il versante sfumano l’uno nell’altro”.
29. Ivi, pp. 36-37.
30. Ivi, p. 65.
31. Ivi, pp. 37-38.
32. “E un giorno sulla riva solitaria di Byblos [...] L’antica
città di Byblos si cullava sulle scogliere sopra il Mediterraneo!
Salutava l’Egitto e la Grecia! - Nei miei sogni sentivo campane
di chiese: nel villaggio vicino trovai un crocefisso e immagini di
santi. Era il diciannove gennaio. Di quale anno?” (A. Schwarzenbach,
La valle felice, cit., p. 43).
33. Ivi, p. 79.
34. Ivi, p. 35.
35. La poesia A Sils è riportata
integralmente da Ch. Linsmayer, op. cit.,
pp. 170-171. |
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