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Di fronte all’irreversibilità del fenomeno della globalizzazione ha ancora un senso oggi adoperare termini come comunità, archetipi, simbolo, tradizione? Anche prima che la globalizzazione diventasse un tema di massa, le questioni dell’identità, della comunità e della memoria (oltre a quello del luogo-paesaggio) si erano venute riaffermando nella consapevolezza della necessità di una riscoperta degli orizzonti di senso, tanto della vita del singolo, quanto di quella delle culture: sia nella versione “debole” del postmodernismo nordamericano, propiziata dalla sensibilità ambientalista, dalla lotta per i diritti e dagli studi di genere e postcoloniali, sia nelle versioni europee di riscoperta delle radici e del significato dei luoghi, delle tradizioni. È stata proprio la globalizzazione, con l’evidenza dei suoi effetti omologanti ad ogni livello, ad accelerare un’inversione di tendenza, rispetto alla deriva modernista della seconda metà del secolo XX, che ha portato nell’ultimo decennio in particolare a molte espressioni di riscoperta e ridefinizione dei significati e delle pratiche relative alla comunità, alla memoria, ai caratteri dei luoghi come paesaggi: in una parola – tutta da definire – al tema delle identità e delle differenze culturali. L’economia e la Tecnica sono alcune categorie che abbiamo ereditato dalla modernità. È realistico pensare di difendere e preservare il paesaggio e l’identità senza tener conto che questi fattori sono pervasivi per loro stessa natura? L’economia è un ambito presente in ogni cultura. Nella nostra, ormai espansa all’intero pianeta, essa ha assunto una sorta di indiscutibile primarietà e una centralità egemone che va compresa come specifico fenomeno storico e, in quanto tale, ridimensionato alle condizioni della sua emergenza come ideologia datata. L’economia è uno degli ambiti in cui si esprime la cultura, non l’unico. Oggi finalmente questa consapevolezza sta emergendo: si pensi ai concetti di decrescita, di economia del dono, alle pratiche delle banche del tempo, dei gruppi di acquisto solidale, delle filiere corte ecc. Naturalmente il mondo è preda di una pratica predatoria e iniqua di economia, i cui concetti sono ancora quelli – ormai sbugiardati dalla storia – di crescita illimitata, infinità delle risorse naturali, possibilità di una soluzione tecnologica alle impasses tragiche del nostro tempo (esaurimento delle risorse, raggiungimento dei limiti dello sviluppo, fame, crescita delle diseguaglianze economiche, guerre endemiche, ecc.). Che in molti settori, ovviamente quelli più consapevoli e attrezzati concettualmente ed eticamente, della popolazione cresca la diffidenza e il rifiuto delle pratiche della cosiddetta “economia” e la smentita pratica alle sue pretese di infallibilità, è un fenomeno indissociabile da quello che ho richiamato prima, della riscoperta dei valori e delle pratiche identitarie, conviviali e comunitarie. La modernità ha posto con violenza sul tavolo della Storia una nuova gerarchia di valori, l’Occidente sviluppato ha imposto il proprio modello su scala planetaria e noi abbiamo accettato che la felicità si misuri con il benessere materiale. Non è illusorio tentare di cambiare tutto questo? Il cambiamento, con tutta probabilità, avverrà comunque, volenti o nolenti. Il benessere materiale non può né avere una crescita illimitata, né bastare a dare senso all’esistenza singola e collettiva. In realtà il nostro tempo è percorso da moltissimi fenomeni di rinascita o di ricerca spirituale e religiosa, che per lo più avvengono come tentativi e ricerche non ortodosse, come “fai-da-te” o accostandosi a tradizioni altre. Sicuramente, in gran parte, sono fenomeni sincretistici e new age, ma credo segnalino un bisogno insopprimibile di significati e dimensioni che evidentemente non vengono colmati dalla proliferazione di merci da consumare. Inoltre c’è un’incredibile ritorno a tutte le forme di quella che una volta si sarebbe chiamata “credulità popolare” – magie, superstizioni, riti di vario genere, ricorso a guaritori improvvisati – in un mondo che si erge fiero dei suoi lumi e della sua disincantata razionalità tecnica. E poi una sete (e forse una realtà) di miracoli e di grandi santi eroici, da Padre Pio a Madre Teresa di Calcutta, sullo sfondo di un intenso e vastissimo culto mariano. Ragionando esclusivamente a livello del valore sintomale di questi fenomeni, mi pare evidente che essi rimandano a una realtà spesso trascurata nell’autorappresentazione che la società contemporanea ama dare di sé, forse perché ne costituiscono uno dei controcanti più inquietanti, smentendo la soddisfazione totale che le persone dovrebbero trarre dall’appartenenza al mondo del benessere materiale, ma anche la definitiva vittoria del razionalismo, dell’oggettività, del disincanto sulle presunte oscurità del numinoso, del sacro, dell’anelito spirituale, della sete di mistero. Alessandro Manzoni scrisse che «non sempre ciò che vien dopo è progresso». Non pensa che il nostro peccato originale sia proprio ritenere che volgere lo sguardo al passato debba significare per forza essere dei biechi reazionari? Lo spirito faustiano – come ha mostrato insuperabilmente Spengler – è connotato da un’incontenibile richiamo verso le lontananze del futuro (il progressismo), ma questa stessa pulsione lo spinge a occuparsi ossessivamente anche delle profondità temporali, del passato fino alla sua immemorialità. Solo questo spirito poteva inventare una “scienza del dolore” (come la definiva Jünger) come l’archeologia e cercare di risalire sempre più indietro nel passato. Tanto che Nietzsche, nella seconda Inattuale, definirà questa ossessione come la malattia storica. Nel Novecento si scatena l’avversione, dovuta alla percezione dell’effetto paralizzante dell’eccesso dei saperi oggettivati (tra cui anche le scienze storiche) e l’anelito rivoluzionario e azzerante verso una tabula rasa che consentisse di ripartire nella costruzione del mondo senza impacci di tradizioni, saperi pregressi e memorie incapacitanti. Dopo la seconda guerra mondiale, che pone definitivamente la pietra tombale sulla cultura europea facendola entrare nella logica americana e dunque tendenzialmente mondializzante, lo smemoramento diventa totale. Si pensi a quello che accade nell’Italia del boom economico, alla rapidissima liquidazione di quanto restava del patrimonio e della cultura tramandati e si pensi al corale silenzio-assenso di fronte alla devastazione patrimoniale, culturale, civile in nome del progresso economico, all’avallo di massa del degrado civile, della devastazione ambientale, della dissipazione dei beni culturali, allo sprezzo per le memorie, le identità, la tradizione da parte della classe intellettuale. Pochissime eccezioni: Antonio Cederna, Rosario Assunto e Pierpaolo Pasolini, sbeffeggiati, osteggiati e naturalmente tacciati di essere reazionari. Lei cosa pensa del concetto di “sviluppo sostenibile”? Espressione ossimorica, dal momento che la sostenibilità, ormai, ha come presupposto la fine dello sviluppo – un concetto divenirista e progressista. Così come la “crescita dei consumi”, da cui l’economia si attende ogni volta una ripresa. Il mondo “sviluppato” consuma molto, molto, molto più del necessario, del plausibile e dell’eticamente accettabile, e il resto del mondo vuole svilupparsi come l’Occidente. La catastrofe è già qui, da tempo, in questa concezione tracotante e primitiva, in questo ottimismo illuministico dei poteri di una certa razionalità di dominio della natura e di calcolo tecnologico ed economico. Personalmente sono nel novero di coloro che ritengono che solo una “decrescita”, nel senso ampiamente argomentato e mostrato da Serge Latouche e da Maurizio Pallante, sia una linea di comportamento realisticamente perseguibile, oltre che eticamente imperativa e urgentemente necessaria. Il bioregionalismo, cioè ripensare pluralisticamente il mondo, trovare aree omogenee che riescano a connettere sistemi naturali con le comunità viventi che la abitano, è per molti un’ipotesi accettabile. Tuttavia è una soluzione che rischia di non affrontare tutta una serie di questioni rilevanti che sono oramai di carattere globale? Il bioregionalismo è un’ipotesi interessante e storicamente meritoria, che ha portato l’attenzione sulla possibilità e l’opportunità di creare forme di oikonomia (di gestione dell’oikos) in armonia e alleanza con gli equilibri e le potenzialità naturali di determinate zone geografiche. Si tratta di una prospettiva ecologista che ha avuto il merito di far pensare a forme concrete di attuabilità di una nuova alleanza tra culture localizzate e ambiente e al ripristino di condizioni più favorevoli alle forme di vita naturali, e dunque più salubri, etiche e armoniose per gli abitanti umani. Forse si tratta di una prospettiva che andrebbe contemperata e integrata all’attuale concezione della difesa e valorizzazione del paesaggio come realizzazione visibile della corrispondenza al genius loci di un territorio da parte di comunità e culture. Riflettere su ciò che costituisce un buon paesaggio, o viceversa un paesaggio disarmonico e respingente, significa necessariamente anche interrogarsi sul rapporto con le possibilità naturali di un determinato luogo che una comunità o una cultura hanno realizzato, e, prima ancora, sulla comprensione, l’interpretazione e la posizione (ostilità, estraneità, collaborazione, assecondamento, cura, ecc.) di fronte ad esse. Da paesaggi riusciti e perduranti dovremmo imparare molto, perché la loro “bellezza” dice di una sostanziale comprensione di ciò che assicura vita alla cultura (un consapevole, rispettoso e lungimirante accordo con la natura), mentre la duratività esprime la buona calibrazione del progetto di vita rispetto alle possibilità di essere efficace e soddisfacente a lungo termine. Stiamo per realizzare il sogno prometeico di fonderci con la Tecnica e di renderci autonomi dalla natura ma allo stesso tempo ci allontaniamo sempre più da qualsiasi opzione spirituale. Lei crede che sia possibile una inversione di tendenza? Di questo tema ho abbozzato lo sfondo in precedenza. Una tecnica lasciata a se stessa, al suo sviluppo rapido e incontrollato, che porta instabilità e arrischiamento estremo, era stata diagnosticata per tempo da Martin Heidegger e da Ernst Jünger. Quest’ultimo, nel suo libro Al muro del tempo, aveva visto molto chiaramente che la nostra civiltà è come un bolide che sta per schiantarsi sul muro di tutto quanto non ha saputo tenere in conto nella sua arroganza prometeica – sostanzialmente i limiti oggettivi che la natura le pone. Credo che la trasfigurazione (o forse lo sfiguramento) dell’umano nel tecnico sia una perniciosa illusione, destinata ad essere ridimensionata, molto probabilmente in forme di estrema drammaticità, in tempi non molto lunghi. Tuttavia, se la tecnica venisse colta nella sua essenza e dunque considerata nella giusta prospettiva, vi sarebbe la possibilità di un ridestamento spirituale più che mai necessario. L’accecamento che la tecnica produce, abbagliando le masse con i suoi ritrovati, rinserra sempre di più l’umanità in un’immanenza materialista e disperata. Jünger, pur riconoscendo con estrema lucidità tutto ciò, pensava che questa fase preludesse a nuova epoca di spiritualità e di rinascita. Speriamo ce ne rimanga il tempo. Jünger intuì la totale connessione tra il dominio totale della tecnica e l’unificazione politica che intravide in un ipotetico Stato mondiale e la sua resistenza spirituale fu identificata nella figura solitaria dell’uomo che passa al bosco. Non ci resta dunque che una lotta di carattere individuale e solitaria? In un’epoca delle masse (o delle moltitudini) solitarie, nell’ipertrofia planetaria delle logiche globalizzanti, nell’assordante mutismo dell’informazione, nel profluvio caotico dei saperi improvvisamente a disposizione, il cambiamento non può che avvenire innanzitutto nel singolo, nei singoli. Sono i singoli che hanno compreso e vogliono percorrere strade diverse che potranno cercare e condividere il cammino con altri singoli, creando comunità d’intenti che eventualmente sapranno attrarre o entrare in rapporto con entità diverse. Potrebbe essere anche un diverso modello di politica, dopo il palese naufragio di quella tradizionale. È del resto già quello che accade negli esempi di buone pratiche, nel cambiamento di rotta che sempre più spesso gruppi di cittadini, animati da singoli, riescono a imprimere alle cose, realizzando veri esempi di governance. Per poter fare questo, il singolo deve essere, in se stesso, “passato al bosco”, ossia avere preso le distanze, intellettuali e spirituali, dall’autorappresentazione chiassosa e spesso menzognera della società, per conquistarsi una prospettiva d’insieme e una distanza critica. Solo questo passo preliminare consentirà al singolo di non identificarsi interamente nel “mondo”, e nello stesso tempo di avere maggiori e più sottili capacità di comprenderlo e dunque di agire positivamente in esso. Lei ha scritto che «il primo compito che l’architettura dovrebbe darsi è quello di liberare molti spazi da molti dei suoi stessi prodotti recenti, decostruire il proprio orizzonte progressistico, la propria tecnolatria, demolendo, letteralmente, quanto costituisce solo sfregio estetico e sprezzo dei luoghi. [….] L’etica dell’architettura dovrebbe contemplare una necessaria opera di pulizia, una preliminare tabula rasa che restituisca molti luoghi alle loro peculiari proprietà formali, simboliche e ambientali, senza aspettare che quest’opera sia attuata qua e là dalla natura, dal tempo o dalla intrinseca babelicità che attira la distruzione». Per fare ciò bisognerebbe però riscoprire il significato della parola “bellezza” che noi moderni abbiamo del tutto cancellato dal nostro vocabolario. La bellezza torna ad essere invocata ed evocata, sempre di più, anche in Italia, in merito alla sentita necessità di salvaguardare il patrimonio culturale della nazione, oltre che il decoro e l’appropriatezza degli spazi urbani e dei territori in generale. È naturalmente molto difficile parlare di bellezza in un’epoca che, dopo il disvalore gettato su questo concetto dalle ideologie e dalle pratiche artistiche e architettoniche del Novecento, usa questo termine per alludere a generici effetti di estetizzazione diffusa e di cosmetizzazione dell’esistente, che spesso sfociano nel trash. È difficile e ambiguo anche perché la valutazione della bellezza è rimessa a un giudizio di gusto che ci appare ineliminabilmente connotato di soggettività, di relatività epocale, e dunque è problematico fare appello al valore universale e intemporale della bellezza. Nondimeno è interessante notare che oggi c’è, per converso, un certo consenso anche nel sentire comune intorno al brutto in architettura, identificato come quella ripetitività elementarizzante e cementizia dei modelli funzionalisti che ha disseminato lo squallore abitativo pressoché ovunque, e le cui realizzazioni in molti casi sono state abbattute per ripristinare situazioni meno insopportabili. E, soprattutto, se non ne parlano gli addetti ai lavori, c’è anche un certo consenso attorno a ciò che può essere ritenuto bello in un edificio, in un paesaggio, in un oggetto: nel sentire comune si tratta di solito di qualcosa che proviene dal passato, anche non molto remoto. Il che, ancora una volta, segnala la precisa e condivisa percezione che la bellezza era possibile e normale fino a prima della modernità industriale e che c’è nostalgia e bisogno di bellezza, ossia di forme, ordine, decoro, cura, amore dei particolari nell’ armonia del tutto.
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