C. Amiet, Der
gelbe Huegel
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Luisa
Bonesio
Pensare come una montagna
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Pubblicato in
Antonio Stragà (a cura di), Oltre le
vette. Metafore, uomini, luoghi della montagna,
Il Poligrafo, Padova 2000 |
2. “Le culminazioni
dell’alpe”
Abbiamo già visto come non necessariamente quelli
“che vanno in montagna” coincidano con quelli “che stanno in montagna”:
o almeno, ne siano, almeno inizialmente, profondamente diversi gli intenti.
Ancora oggi, per lo più, un caricatore d’alpe ha del territorio
montano una visione assai diversa da quella dell’escursionista o del turista,
sia in termini di conoscenza che di individuazione dei suoi possibili
usi; così come un cercatore di cristalli all’epoca della scoperta
del Monte Bianco rispetto a un artista che ne immortalava le vedute. Sicuramente
anche il modo di “vedere” le montagne dei monaci tibetani o di quanti
si recano in pellegrinaggio sul Kailash (o su qualsiasi altra montagna
sacra) è diverso da quello degli occidentali che vi si recano per
le loro ascese.
Nella cultura del Novecento esistono significative posizioni di critica
i miti della modernità - progresso, democraticismo, economicismo,
fede nella scienza e nella tecnica, materialismo -, in cui il turismo
viene interpretato come una forma massificata e priva di consapevolezza
dell’accostarsi alla natura. Il turismo e il mito della natura incontaminata
appaiono come uno dei segni della decadenza spirituale della nostra epoca,
oltre che fenomeni che finiscono col distruggere o compromettere l’ambiente
naturale, senza peraltro assicurare durevolmente quei benefici che fungono
ormai per lo più da alibi e retorica per la commercializzazione
di qualcosa che non dovrebbe poter essere considerato una merce. Questo
punto di vista non vuole ripristinare un passato improbabile, ma, al contrario,
richiamare l’attenzione sul fatto che ogni luogo richiede comportamenti
e misure specifiche che ne rispettino il nomos
sapendone riconoscere il significato.
Una declinazione particolare di questa attitudine di rifiuto dello svilimento
delle montagne nella logica consumistica o sportiva è ravvisabile
nell’interpretazione della pratica alpinistica come disciplina ascetica
e spirituale. L’alpinismo di chi si rifà a valori spirituali e
metafisici si distacca recisamente da ogni interpretazione della disciplina
in senso agonistico e sportivo. Lo sport è infatti una delle manifestazioni
della civiltà di massa e del culto della forma fisica fine a se
stessa che caratterizza il nichilismo contemporaneo, viceversa significativamente
poco preoccupato della salute spirituale -, costitutivamente volto all’agonismo,
o addirittura al superomismo - dunque prodotto estremo della volontà
i potenza che pretende di essere metro di tutte le cose, visibili e invisibili,
signoria sulla terra che, faustianamente, non tollera alcun limite alle
sue conquiste, ma è sempre proteso ad affermarsi in nome di quel
titanismo con cui ha cambiato la faccia della terra (7).
Se l’ascensione viene considerata per le possibilità spirituali
e iniziatiche che offre, la sacralità della montagna, testimoniata
dal suo universale simbolismo come corrispondente di stati interiori trascendenti
o sede di divinità, o di eroi trasfigurati, insomma luogo di partecipazioni
a forme di vita più alta, diventa luogo di manifestazione simbolica
di significati trascendenti, come l’esperienza stessa della montagna alla
nostra più profonda interiorità, purché venga realizzata
adeguatamente, suggerisce.
Questo modo di accostarsi alla montagna respinge sia l’atteggiamento “lirico”,
ossia sentimentale in senso banalizzante e retorico - il cliché
della montagna-panorama secondo gli standard del pittoresco e di un certo
lirismo ottocentesco - estraneo sia agli abitanti dei monti che ai veri
alpinisti; sia l’atteggiamento “naturistico”, che come abbiamo già
visto, è piuttosto un sintomo di decadenza spirituale, una sorta
di misticismo primitivistico della natura che rimane segnato da un carattere
di reazione e di evasione dalla negatività della vita quotidiana;
sia l’atteggiamento per cui il valore di un’ascesa è visto nella
sensazione e nell’eroismo fisico, in cui il rischio è l’esasperazione
di una fisicità fine a se stessa, un ideale della prestazione agonistica
che di fatto è già ampiamente sviluppato nel carattere di
lavoro che permea tutti gli aspetti della vita sociale, ma non può
essere in sé considerato la base per conquistare una spiritualità
superiore. Questo punto merita attenzione, dal momento che qui si può
far rientrare, oltre alla caccia all’emozione, all’eccitante, all’“estremo”,
al “no limits”, anche una certa esasperazione
degli aspetti e dei supporti tecnici dell’arrampicare. In secondo luogo,
è da notare come a questo orizzonte di esasperazione sportiva si
scateni appartenga la corsa al primato, la competizione, la rincorsa alla
scoperta di nuove montagne, che è anche l’escogitazione delle “vie”,
delle difficoltà, ecc. Come se alla montagna non ci si potesse
accostare che con un atteggiamento di competizione, di sfida, di appropriazione
(significativo il gesto del piantare la bandiera sulla vetta), di “conquista”.
Anche questo aspetto, in realtà, è perfettamente coerente
con l’affermazione del soggettivismo che contrassegna l’epoca moderna:
come nella scienza non vi deve essere, per definizione, alcun aspetto
che possa sottrarsi all’indagine, come il cammino della cosiddetta civiltà
prevede la sottomissione e l’affermazione della libertà umana sui
vincoli della natura, analogamente e come logica conseguenza, non deve
restare dominio o recesso del mondo naturale nel quale l’uomo non porti
la propria presenza appropriante, non “firmi” - di solito con ingombranti
rifiuti - il suo passaggio.
Quando le vette sono tutte conquistate, dunque, inizia la retorica della
“sfida” al pericolo, alla difficoltà, ai limiti, con tutte le sue
infinite, per quanto ripetitive, varianti. Nella visione e nella pratica
più diffusa della “sfida” al pericolo e alle difficoltà
agisce un paradigma superomistico che ha poco a che vedere con l’effettiva
concezione nietzschiana dell’oltreuomo, ma molto con una certa vulgata
che afferma i valori, che un tempo erano quelli dell’ascesi e della fortificazione
dello spirito, in un contesto completamente secolarizzato e con un’intenzione
del tutto profana: si tratta di superare i propri limiti di resistenza
fisica, di vincere le paure, di lottare contro la montagna per dimostrarsi
metaforicamente e letteralmente alla sua altezza, si affrontano sacrifici,
pericoli, si rischia la vita in una sorta di eroismo solitario, ma il
fine è semplicemente quello di un’affermazione di sé, una
specie di narcisismo eroicizzante. Semplificando per far emergere con
chiarezza l’essenziale, si potrebbe dire che in quest’ottica non conta
la montagna per quello che è, ma come supporto, occasione e oggetto
dell’impresa di un singolo. Portato alle sue estreme, ma del tutto coerenti,
conseguenze, si tratta sempre di quell’atteggiamento di riduzione di tutto
l’esistente alle ragioni o alle sensazioni soggettive: si tratta pur sempre
di un accostarsi estetico o estetizzante - cioè tale da privilegiare
la sensazione, l’emozione, il sentimento individuale, l’autorappresentazione
fino al punto di non “vedere” più la montagna, ridotta ormai a
scenario delle imprese umane-troppo umane. Anzi, a rigore non è
più in gioco “la montagna” (come qualsiasi altro paesaggio), ma
una finzione rappresentativa e fortemente artificiale, in cui non si mette
in gioco la propria vita, ma si fa, piuttosto “teatro”: è l’atteggiamento
“di chi cerca la natura per eseguire in essa l’ultima possibile recita
in un mondo per il resto totalmente umanizzato. [...] Ovunque, in montagna,
in viaggio nei deserti, sulle spiagge, come nel paesaggio urbano l’individuo
si comporta sempre più da attore che recita, seguendo un copione
che suggerisce non solo i comportamenti ma anche i luoghi giusti, gli
ambienti adatti a esprimersi, secondo i modi che tornano a vantaggio dell’economia
consumistica” (8).
Quello che ancora una volta rimane inascoltata è l’eco contenuta
nell’emozione e nell’intuizione che portano verso la montagna: grandezza
che richiama a qualcosa che non è più umano, che è
primordiale, inaccessibile, enigmatico, immutabile (9).
Se si “pensasse come una montagna”, si lasciassero risuonare questi richiami,
cercando di trasformarli in meditazione, contemplazione, si potrebbe avviare
una realizzazione spirituale corrispondente all’esperienza della montagna:
si tratterebbe di recare l’illuminazione di una visione simbolica adeguata
sull’esperienza della montagna, trasformando la vita quotidiana, diventando
quelli che non ritornano mai dalle vette in pianura (10).
Non tornare in pianura, ossia a quelle che Nietzsche chiamava le “bassure”
della vita comune che cerca le sue piccole sicurezze e il suo confortevole
benessere, significa in realtà che non vi sarebbe più né
andare né tornare, una volta “realizzata” la Montagna nel proprio
spirito, tradotto il simbolo in realtà. E’ superfluo sottolineare
quanto una visione del genere, pur in un’attività che superficialmente
sembrerebbe essere la stessa di ogni alpinista, si distacchi, nei suoi
aspetti ascetici e conoscitivi, ma anche in quelli del comportamento verso
la montagna, da ogni pratica sportiva che della montagna faccia solo un
pretesto, una palestra o un palcoscenico di avventure narcisistiche e
di comportamenti consumistici: è, come ha detto efficacemente Rudatis,
“la scalata che va oltre tutte le scalate”
(11).
Questo significato forte dell’ascensione conduce a riflettere sul pericolo
di degradazione simbolica che le montagne corrono nei nostri tempi. Oggi
che tutte - o quasi - le montagne sono state conquistate materialmente,
esiste il rischio che anche questo volto della natura perda il residuo
significato simbolico, e dunque le montagne siano “abbassate” e rese equivalenti
a tutto il resto. E’ quanto si è già verificato, anche solo
a livello del consumo estetico, nella inesorabile progressiva appropriazione
immaginale, prima dalla rappresentazione artistica e letteraria, poi dal
mondo della vita sociale che li fruisce come luoghi turistici e, così
facendo, li consuma secondo la logica moderna della ricerca incessante
della novità, che spinge inesorabilmente alla “scoperta” e all’appropriazione
di paesaggi e aspetti della natura sempre diversi (12).
In questa forma del consumo estetico-turistico di massa è racchiuso
un enorme pericolo, di ordine economico e di ordine simbolico (13).
Ma se è dalla perdita del valore simbolico che deriva ogni altro
fenomeni di degrado, materiale, immaginario ed estetico, la riflessione
circa i modi di “valorizzare” le montagne può ricevere una nuova
luce: valorizzare dovrebbe voler dire: salvaguardare il valore intrinseco
della montagna, non svenderla o tramutarla nella caricatura di una periferia
metropolitana; e preservare l’intangibilità delle montagne, salvaguardarne
il carattere appartato e selvatico, mediante zone di rispetto, una viabilità
non corriva verso le spinte commerciali, una rinnovata educazione alla
loro grandezza .
Una montagna vista innanzitutto nel suo carattere “alto”, impervio, selettivo,
ascensionale e solitario non può favorire comportamenti di facile
appropriazione, di consumo e distruzione indiscriminata, di annessione
indifferente. Una montagna come axis mundi,
luogo sacrale, cratofania o santuario, o anche semplicemente come luogo
di una singolarità irripetibile, se davvero compreso come tale,
non può essere considerata come un bene di cui disporre indiscriminatamente,
neppure nell’immaginario. Ma anche una montagna compresa come luogo delle
culture che vi sono insediate, come sempre più precario retaggio
tradizionale sopravvivente nell’estrema modernità, non dovrebbe
essere cancellata nella sua identità con gli alibi della valorizzazione
commerciale, che è l’acido più corrosivo nei confronti del
senso di appartenenza.
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7. “L’impulso di natura plutonica non sorge più
alla ricerca dell’oro, ma di energie capaci di trasformarsi in utopie,
dai combustibili fossili fino all’uranio. Mossi da tale ricerca, non si
agisce secondo criteri di economia, ci si comporta invece come lo scialacquatore
che dissipa l’intera eredità per perseguire un’idea fissa. Nei
sogni di Plutone non vi sono tesori nascosti, ma il vulcano. E’ attratto
dall’Everest non per la vista che può offrire, ma per il record
che gli consente di raggiungere. La biblioteca non è per lui il
luogo delle Muse, ma uno spazio di lavoro, completo di arredo tecnico.
Trascura di onorare i morti, ma va a frugare dentro alle tombe più
antiche” (E. Jünger, La forbice,
tr. it. di A. Iadicicco, Guanda, Parma 1996, p. 157).
8. E. Turri, Il paesaggio come teatro.
Dal territorio vissuto al territorio rappresentato,
Marsilio, Venezia 1998, p. 132. Sono tutti atteggiamenti, come si può
constatare, che derivano da un'esasperazione di aspetti della personalità
in senso soggettivistico, limitati a un'idea povera e in sostanza ampiamente
consumistica dell'affermazione di sé e a un mondo che “comporta
la riduzione dello scenario a un paesaggio del tutto denaturalizzato,
che anche nei suoi aspetti selvaggi è ricondotto, fittiziamente,
alla nuova e totale teatralizzazione del mondo” (Ivi,
p. 133).
9. Un significativo esempio di questo arrampicare attento a connotazioni
simboliche ed esoteriche sono gli scritti di D. Rudatis, in particolare
Liberazione,
Nuovi Sentieri, Belluno 1985.
10. J. Evola, Spiritualità della
montagna, in Meditazioni
delle vette, Il tridente, La Spezia 19863, ora
raccolto in J. Evola-Samivel, Il sorriso
degli dèi. Note su uomini di montagna e montagne degli dèi,
Barbarossa, Milano 1996. Sia pure in un più ampio contesto di pensiero,
le riflessioni di Evola su questo tema, insieme con quelle dell'accademico
del CAI Domenico Rudatis, sono del massimo interesse. Un’utile raccolta
di scritti appartenenti a questa prospettiva è il volumetto di
AA.VV., Il regno perduto. Appunti sul
simbolismo tradizionale della montagna, Il cavallo
alato, Padova 1989.
11. D. Rudatis, Sulla via del senso
cosmico, “Annuario CAAI”, 1990, p. 14.
12. Cfr. J. Ritter, op. cit.,
n. 57.
13. In un contributo molto significativo da questo punto di vista, Evola
annovera tra i sintomi di decadenza spirituale l’approccio “discendente”
alla montagna rappresentato dallo sci (di discesa): “Laddove l’alpinismo
è caratterizzato dall’ebrezza
dell’ascesa come conquista, lo sciismo è
caratterizzato dall’ebrezza della discesa,
della velocità e quasi diremmo della caduta” (J. Evola, Ascendere
e discendere, in Meditazioni
delle vette, cit., p. 71). La caratterizzazione
evoliana dello sci può facilmente essere estesa, oggi, a tutti
gli sport che perseguono “tecnica, giuoco ed ebbrezza della caduta”: in
essi si esprime lo spirito della modernità, “spirito ebbro di velocità,
di ‘divenire’, di un moto accelerato, incomposto, fino a ieri celebrato
come quello di un progresso, laddove esso, sotto molti aspetti, altro
non è che quello di un franare e di un precipitare” (Ivi,
pp. 71 e 72).
Montagna
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