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DI GEOFILOSOFIA

Luisa Bonesio

Il paesaggio è la nostra casa

"Il Domenicale", 23 novembre 2002


 

2. Il territorio è conservatore

Se fin dai suoi inizi tardo-ottocenteschi, la tecnica moderna ha ridotto la terra a un paesaggio fabbrile e a un immensa, disarmonica officina, facendo del dissesto perenne la legge strutturale della sua avanzata, in questo cantiere che ha estensione tendenzialmente planetaria, ma che esercita una devastante incidenza in luoghi sempre specifici, è giunto il momento di pensare non più in termini di ulteriore espansione e intensificazione dello sfruttamento, ma di riuso, manutenzione, restauro, abbellimento, di periodico riassetto e di correzione di abusi ed eccessi. Non si tratta di opzioni di basso profilo, rinunciatarie, se si pensa che è proprio a causa della perdita di consapevolezza dei limiti intrinseci di ogni costruzione umana (e del contesto che la rende possibile), che la civiltà corre il rischio di autodistruggersi: ci troviamo su quella linea (o forse l’abbiamo già oltrepassata) in cui la Terra richiede uno sguardo unitario, che non sia solo quello unilaterale e disponente della tecnica o quello, ancor più miope, dell’economia; ma questa consapevolezza globale di aver raggiunto il limite dell’equilibrio deve essere declinata ogni volta nella specificità delle configurazioni territoriali e dei loro peculiari punti di equilibrio e di conservazione, dal momento che ogni tessuto territoriale è un organismo complesso e delicato, non una semplice superficie disponibile per qualsiasi manomissione. È una plurima sedimentazione di temporalità e intenzionalità funzionali diverse, scale differenti e orientamenti differenziati che non si sovrappongono o si elidono meccanicamente, come strati inerti, ma piuttosto si armonizzano in una vitale integrazione e collaborazione resa possibile dalla presenza articolante e vivificante di una stessa matrice di interpretazione e configurazione spaziale e simbolica.

Quello stadio di nuova consapevolezza civile, che ormai quarant’anni fa invocava Saverio Muratori, sembra incontrare ancora molti ostacoli sul proprio cammino. Eppure solo da una lettura consapevole del territorio locale, nelle sue interconnessioni globali, può essere compresa la straordinaria portata culturale, civile e comunitaria (oltre che ecologica) di un modo nuovo (in realtà tradizionalissimo) di intendere il progetto e la realizzazione architettonica: come un prendersi cura di tutto ciò che concorre alla vita della irripetibile singolarità dei luoghi, nei loro tratti paesistici, tradizionali, memoriali, differenziali, con la spontanea sollecitudine con la quale si cerca di evitare il degrado, l’abbandono, l’imbruttimento, il malfunzionamento della propria dimora. Se ogni cultura, finché è vivente e consapevole di sé, opera in accordo con il nomos dei luoghi per poter fiorire e mantenersi, la contemporaneità mercantile e speculativa, con una caratteristica miopia, anche in fatto di gusto, finisce con l’interrompere in modo tendenzialmente definitivo il circolo virtuoso territorio-cultura, anche a partire dal profondo misconoscimento dell’idea stessa di "conservazione".

Eppure, "conservare" significa tenere presso di sé (cum-serbare), preservare nella cura, trattenendolo dalla sparizione, ciò che si ha a cuore, dunque con un’intensità che può concernere solo ciò che davvero conta per noi: tutto il contrario dell’accezione freddamente museale, asetticamente imbalsamatoria con la quale per lo più risuona alle nostre orecchie questa parola, e che presuppone un automatico disinteresse e una subitanea dimenticanza per quanto, una volta catalogato, può essere abbandonato in un virtuale deposito di memorie da cui sembra poter essere momentaneamente estratto ogni volta che lo si voglia. Una paradossale forma di conservazione, quella della modernità, l’approntare istituzioni che consentano la buona coscienza dell’oblio e della distruzione, siano esse musei o parchi a tema, oppure "riserve" etnografiche di vario tipo, con tanto di "mediatori culturali". Un illusorio trattenere dalla scomparsa definitiva quei mondi che lo stesso Occidente - dentro e fuori di sé - ha incessantemente sfigurato e cancellato.

Eppure, solo coloro che ereditano consapevolmente potranno accedere al futuro: come scriveva Nietzsche, l’uomo dell’avvenire è colui il quale è dotato di più lunga memoria; chi, si potrebbe dire, ha le radici più profonde e ramificate, saldamente piantate nel terreno delle sue tradizioni; non quindi nella "grande discarica" dell’omologazione, nel mercato dove si trovano i detriti e le caricature di tutte le culture del mondo, e nemmeno in quella "santificazione delle scorie" in-differente che, con gesto uguale e contrario alla generalizzazione della distruzione e dell’indefinita riproducibilità, eleva a "bene culturale" (dunque meritevole della conservazione istituzionale) ogni oggetto che appaia "originale": "Il bene culturale mette sullo stesso piano la roncola contadina, l’affresco rinascimentale, la basilica paleocristiana, il tetto a falda di una baita alpina e il sanitario avanguardistico, facendo diventare tutti i prodotti degli originali storico-artistici e tutti noi protagonisti a pari merito nell’immaginario Olimpo democratico". Questa moda (in realtà declinazione del consumismo e della ricerca di genealogie surrogatorie) o retorica dell’originale non ha niente a che vedere con una reale attenzione al significato della tradizione che si incarnava nel modo d’essere dei territori, e che oggi ci è diventato per lo più inintelligibile. Anzi, questa musealizzazione entrata a far parte dei comportamenti di massa, e che trova ampie ricadute a livello di iniziative e istituzioni, rischia di essere la più subdola antitesi di un’idea di "conservazione" dell’identità culturale dei luoghi.

L’affermazione della necessità di riconoscere ed elaborare uno "statuto dei luoghi", da parte degli urbanisti, significa il riconoscimento della necessità di mantenere "l’identità culturale del territorio", a partire dall’individuazione di matrici formali che si rivelano nella configurazione temporale. Leggere il tessuto storico, la conformazione territoriale sottostante all’aspetto estetico, è il passo preliminare a qualsiasi operazione di pianificazione o intervento: "Le strutture storiche sono il riferimento per guidare i progetti di assetto urbano e territoriale, per ripristinare l’antico rapporto della città con il suo territorio. Si pensi alla possibilità di valorizzare, con il ripristino delle alberature, il formarsi di percorsi che consentano di riscoprire la magnificenza del paesaggio. Lo storico sistema dei canali, dei boschi e dei prati - ma anche dei campi - quali strumenti organizzativi del territorio, può configurarsi quale monumento del paesaggio per riqualificare gli stessi progetti di eventuali e sempre più inadeguati completamenti edilizi".

È passato il tempo in cui era un delitto rivendicare la bellezza o parlar d’alberi: un bel paesaggio possiede un "senso di rappresentanza e di comunicazione socioculturale […]. Una bellezza non tanto intesa come espressione di valori estetici (paesaggistici o architettonici), quanto etici (con i quali si misura la qualità e l’identità di un insediamento". È un compito preliminare ma fondamentale, prioritario e decisivo rispetto a qualsiasi azione che, in mancanza di esso, rimarrebbe cieca o controproducente: occorrono nuovi strumenti interpretativi e nuovi pensieri, molto più che immagini rassicuranti mutuate da un passato nobile, ma irrimediabilmente tramontato in quella forma.

 

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