SITO ITALIANO DI GEOFILOSOFIA |
3. Paesaggi e comunità
L’esigenza della conservazione viene dunque affermata dagli urbanisti, consapevoli delle proprie responsabilità passate, con un vigore forse spiazzante per gli studiosi di estetica: "Mantenere ciò che resta ancora integro, restaurare e ripristinare ciò che è stato alterato, ristabilendo le condizioni originarie dei luoghi deturpati, dovrebbe essere la nostra legge". Se non c’è dubbio che la tutela del paesaggio non può limitarsi a pensare in termini di protezione e conservazione, ma si deve dotare di una componente progettuale, le condizioni attuali del pianeta a livello ecologico e dei singoli territori a livello culturale nondimeno richiedono essenzialmente e prioritariamente progetti in cui l’aspetto del ripristino e della conservazione intelligente e dinamica sia strutturante rispetto ad altri (soprattutto rispetto alla sola valutazione economica immediata). Questa priorità non va però intesa sulla base della valorizzazione esclusivamente estetica dei territori, perché come una certa tendenza che si sta affermando insegna, la fissazione dell’"immagine estetica" può non essere affatto in contrasto con lo stravolgimento dell’identità culturale e sociale, ma al contrario perfettamente compatibile con un modello globalizzante e omologante di sviluppo: basti pensare ai paesaggi congelati nella propria immagine-cliché e tutelati dal copyright, oppure al caso di antichi insediamenti abbandonati dai loro abitanti, restaurati lussuosamente per diventare residenze turistiche usate per pochissimi giorni da cittadini che certo non si preoccupano di mantenere il territorio. In altri termini, è proprio nell’arrestarsi alla "superficie" estetica che la conservazione diventa conservazionismo museale o turistico, che non solo si limita, nei casi migliori, a fossilizzare una maschera da cui la vita è fuggita, ma avalla e rischia di incrementare la logica fatalistica secondo cui al destino di distruzione delle culture e dei paesaggi non ci si può realmente opporre, pena l’accusa di essere "nostalgici", "conservatori" o "romantici". In realtà, sia pur tardivamente, la questione della salvaguardia delle differenzialità culturali e territoriali si sta imponendo, non solo nel dibattito degli esperti, ma anche in sempre più ampi strati dell’opinione pubblica. A livello della riflessione teorica, il problema della tutela e valorizzazione delle specificità culturali, ambientali e paesaggistiche locali non ha niente a che vedere con il "localismo" o il "provincialismo", ma si colloca nell’orizzonte di un ripensamento critico della logica mondializzante della globalizzazione economica e del conseguente livellamento che omologa in un indistinto babelismo di forme, lingue e culture. In altri termini, per pensare il tema della singolarità dei luoghi (cioè di culture sempre situate), occorre tener fermo l’imprescindibile orizzonte di un mondo che la logica tecnoeconomica vorrebbe ridurre ad uno, a un uni-verso in cui le differenze siano annullate o rese inoperanti (appunto, al massimo mantenute allo stato larvale come immagini estetico-turistiche). Sarebbe vano pensare un aspetto senza l’altro. Non è possibile illudersi di potersi rifugiare in qualche riserva o oasi di incontaminata autenticità, oppure in una dimensione estetica nella quale si potrebbe continuare ad avere percezioni paesaggistiche e godimenti estetici nei termini di categorie, esperienze e poetiche elaborate due o tre secoli fa. Occorre allora domandarsi come un territorio possa "evolvere" e al contempo mantenere la propria peculiare fisionomia paesaggistica. La questione sta essenzialmente nel modo di concepirne l’identità. Se si tratta semplicemente dell’aspetto che un luogo può assumere, indifferentemente rispetto alla sua storia, tradizione, configurazione morfologica, in modo intercambiabile, a seconda delle mode e degli interessi economici, è possibile che si dia una caratterizzazione estetica, magari forte, di un luogo, anche in assenza di un’identità culturale riconoscibile: basti pensare a molti centri delle Alpi italiane o delle campagne, venute di moda con la valorizzazione dei prodotti agricoli e gastronomici. In questi casi la conservazione o la mimesi di moduli estetici e architettonici del passato può anche produrre un’impronta estetica di buon effetto, gradevole, tale da identificare in modo preferenziale un luogo, senza che a tutto ciò corrisponda alcuna profondità storica e culturale o sia espressione dell’interazione creativa e solidale di una comunità con il territorio. Si potrebbe dire che si è di fronte alla mera messa in scena di un’identità estetica che, in assenza delle condizioni culturali che l’avevano realizzata in altri tempi, è completamente fittizia, una semplice immagine di consumo, questa sì vera mitologia del "locale" che, in quanto tale, non può che essere l’illusione di un ritorno al buon tempo andato, sempre a portata di mano, mentre il mondo prosegue nel suo forsennato degrado (o nella sua auspicabile modernizzazione). Se invece l’identità del paesaggio è pensata come quella realizzata dalla continuità coerente di atti territorializzanti, espressione armonica del peculiare stile di insediamento (e dunque di interazione con la natura) di una cultura (non necessariamente autoctona!), anche la qualità estetica non potrà essere scissa, come un’efflorescenza senza radici, dall’identità culturale. Il che non significa in alcun modo fissità difensiva, chiusura automonumentalizzante, municipalismo etnicistico; piuttosto si tratta di riconoscibilità nell’incessante trasformazione, che a buon diritto si può servire dell’idea fisiognomica per alludere alla manifestazione sempre singolare del genius loci, al modo coerente ma sempre rinnovato del mantenersi in accordo con il carattere del luogo. In questa prospettiva, "tradizione" e "innovazione" non sono in insanabile contrasto: la continuità dello stile di una cultura (e dunque del suo modo di produrre-conservare paesaggio) si realizza attraverso innumerevoli atti di trasformazione, adattamento, riassetto; è quella "normale" dinamica nella quale una cultura si perpetua; come efficacemente dice Cervellati, "la tradizione è un’innovazione riuscita". È giunto il tempo di riflettere sul paesaggio come spazio simbolico delle comunità che lo abitano. È una questione che inevitabilmente si sono posti anche gli urbanisti, proprio in relazione alla progettazione di forme di territorializzazione che non si limitino a una mera imbalsamazione dell’esistente o, per converso, alla nichilistica rassegnazione, all’omologazione azzerante. Se il paesaggio è la creazione di un’intera cultura, di un intero popolo, la sua perpetuazione e incremento sono correlativi a ciò che, per esempio, Magnaghi chiama "la ricostruzione della comunità". "La comunità che sostiene se stessa fa sì che l’ambiente naturale possa sostenerla nella sua azione"; il che significa che il primo requisito per mantenere la peculiarità di un paesaggio è il non imporre sul luogo logiche economiche esogene ed estranee, modelli e ritmi di sviluppo che non tengono conto delle peculiarità locali. Correlativamente, poiché "sviluppo locale" e "localismo" non sono necessariamente sinonimi, occorre evitare di precipitarsi in un’indebita e generalizzata stigmatizzazione ideologica. In realtà, il paesaggio è sempre l’indice del grado di realizzazione di una alleanza della cultura con il luogo naturale e le sue possibilità. Da questo punto di vista, occorrerebbe estendere l’idea di comunità per allargarla a quel complesso vivente che è la "natura" di un luogo, ma anche a tutte quelle forme di presenza materiale (architetture, opere di coltivazione, ecc.) e spirituale (tradizioni, saperi locali, ritualità, simboli) delle generazioni precedenti sedimentate in un luogo, non meno che ai venturi, nei confronti dei quali terra e culture dovrebbero essere normalmente pensate come un patrimonio da trasmettere nella sua integrità. In simile prospettiva, che ricomprende nella propria considerazione termini concepiti di solito come eterogenei (con uno squilibrio tutto a favore dell’iniziativa presente e puntuale e una trascuratezza - spesso vera e propria ignoranza - delle ragioni del passato, sia pure inscritte in ogni pietra o campo del paesaggio, nonché delle ripercussioni sul futuro), l’identità si trova ad essere pensabile come quella di una comunità di paesaggio; dunque ogni considerazione volta a salvaguardare le "invarianti strutturali" o la matrice formale di un luogo, attivando direttive, progetti, misure di tutela e di valorizzazione, dovrà riconoscerne "i caratteri identitari" costituenti il carattere singolare e insostituibile di un luogo, non arrestandosi a semplici criteri di sostenibilità ambientale. Nel paesaggio è in gioco la sostenibilità ecologica e culturale della comunità allargata che in esso si realizza, nel specifico "stile" che lo caratterizza in quanto singolarità. In questo senso, se di paesaggi si dovrebbe parlare solo al plurale, per sottolinearne la molteplice singolarità, questo comporta che la considerazione di un paesaggio sia ogni volta necessariamente incentrata sul suo carattere locale, ossia specificamente individuato in un territorio, in precise coordinate storiche e temporali: il che significa che ogni paesaggio ha luogo in ben definite coordinate e caratterizzazioni (naturali e stilistiche) spazio-temporali. Quando questo non accade più, al paesaggio è subentrata la delocalizzazione e detemporalizzazione indotta dall’adozione di "matrici formali" uniformanti (quindi sradicanti), che inesorabilmente scardinano l’ordinamento simbolico, spirituale e spaziale del territorio in quanto creazione storica dotata di una sua riconoscibile identità formale, di una sua inconfondibile fisionomia, sostituendolo con i non–luoghi e la deterritorializzazione in cui non è possibile abitare.
© 2004-9 Geofilosofia.it - Tutti i diritti riservati |