Home - Geofilosofia.it SITO ITALIANO
DI GEOFILOSOFIA

Tavola rotonda al Festival di Filosofia
di Cosenza sul tema: Utopia/Eresia
Cosenza, 21-23 maggio 2004


Caterina Resta
L’utopia della felicità pubblica. Comunità


 

1. L’Isola di Utopia

Per comprendere il concetto di utopia, è preliminarmente necessario un approccio di tipo geofilosofico.

L’Utopia è un’Isola, circondata dal mare. Un’isola il cui carattere specifico è quello dell’isolamento. Proprio a causa di questo suo isolamento, essa potrà anche divenire il luogo più adatto alla sperimentazione, privo di contatto e di possibilità di contaminazione con il mondo esterno. Come in un asettico laboratorio, su quell’Isola che è Utopia si possono sperimentare i vari modelli di società perfetta.

Ora, però, non basta dire che l’Utopia è un’Isola, il cui isolamento la rende particolarmente idonea ad essere un laboratorio per la sperimentazione politica. Bisogna anche vedere come si vede quest’Isola, qual è lo sguardo che quest’Isola rivolge su se stessa. Poiché essa non è Luogo, ma Laboratorio, l’Isola non ha una fisionomia propria, non ha un paesaggio che la caratterizzi: il suo spazio è uniforme e anonimo, come la distesa di mare aperto che la circonda. Tabula rasa, lavagna sulla quale tutto deve ancora e può essere scritto, l’Isola dell’Utopia può essere compresa solo a partire da quell’infinita distesa di mare che la circonda, la cui uniformità ha preso a modello.

Non è un caso, infatti, se ‘Utopia’ fu la nuova parola coniata da Thomas More come titolo di un suo celebre scritto del 1516, proprio agli inizi dell’Età Moderna e di quella straordinaria rivoluzione spaziale causata dall’irresistibile richiamo degli oceani che condusse alla scoperta del Nuovo Mondo e alle prime circumnavigazioni del globo.

Come ha opportunamente fatto notare Carl Schmitt, nella nuova parola utopia

«si manifesta la possibilità di una immane negazione di tutte le localizzazioni sulle quali poggiava l’antico nomos della terra. Una simile parola sarebbe stata impensabile sulle labbra di un uomo dell’antichità. Utopia non significa infatti semplicemente non-luogo, Nowhere (o Erewhon), ma l’U-Topos per eccellenza, una negazione in confronto alla quale persino l’A-Topos possiede un legame più forte, pur nel negativo, con il Topos» (1).

Nel termine “utopia”, assunto prevalentemente nel significato di eu-topia, di un luogo non reale, ma immaginario, nel quale poter proiettare l’aspirazione ad una Città felice, il sogno di una società perfetta, Schmitt ci invita invece a percepire, in quella negazione del Luogo (“non-luogo”), non tanto la negazione della realtà a favore dell’immaginazione, quanto la drastica negazione di ciò che è Luogo, l’annichilimento stesso del Luogo (2). Per questa via, dunque, l’Isola Utopia è illocalizzabile solo perché frutto di quella radicale delocalizzazione [Entortung] che rende simile la sua terra a quel mare che da ogni parte la circonda, liberandola da ogni vincolo terraneo, da ogni ethos, come, persino, da ogni storia, e dunque da ogni nomos che al Luogo possa conferire Ordinamento. Utopia e nichilismo (3), dunque, si corrispondono esattamente in una medesima tabula rasa che, per la prima volta, alle soglie della Modernità, consegna all’uomo e alla sua volontà di potenza uno spazio omogeneo e vuoto, pre-disposto al suo progettare, calcolare, trasformare: il compito di una nuova creatio ex nihilo, «l’ossessione di un’altra terra» (4).

Proprio per questa ragione, oltre a quella geofilosofica, ma intrinsecamente legata ad essa, è necessario accostarsi a ciò che rappresenta l’Utopia anche da un punto di vista teologico.

Idea, come dicevamo, di una nuova creazione dal nulla, l’Utopia è dunque frutto di una concezione che può sorgere solo al tramonto del mondo medievale. Essa rappresenta la versione ormai secolarizzata della città di Dio, della Gerusalemme che dal cielo è approdata in terra: è il progetto di una realizzazione umana di quel Regno di Dio che la promessa cristiana non è riuscita a realizzare. Rivincita di Pelagio su Agostino, l’idea utopica di poter progettare, edificare e realizzare la felicità in terra – come ha acutamente segnalato Cioran nelle sue folgaranti pagine di Storia e Utopia – porta le tracce di un pelagianesimo inguaribile che, in forma secolarizzata, si allea ad un risorto titanismo. Pelagiana è infatti la convinzione di una natura incorrotta che non conosce il vulnus del peccato originale. Gli uomini nascono buoni e liberi, predestinati al Bene e perciò suscettibili di realizzarlo compiutamente già in questa terra, attraverso un processo di perfezionamento, materia plasmabile che presto scoprirà nelle infinite risorse della tecnica e nell’ideologia del progresso gli strumenti pratici e teorici per la propria illimitata autotrasformazione.

La parousia della Città felice è dunque ormai il risultato dell’opera dell’uomo che, naturalmente buono, non deve far altro che rimodellare il mondo a propria immagine e somiglianza, rettificando costantemente quanto potrebbe offuscare questa perfezione. Sarà il sogno anticristico (5) del paradiso tecnologico.

Solo da queste premesse, che collocano il non-luogo utopico non in un genere letterario o in un vago ideale di un mondo migliore, ma all’inizio della Modernità, con il conseguente processo di delocalizzazione e di secolarizzazione che da essa prende avvio, solo da queste premesse – dicevo – è possibile, a mio avviso, comprendere non solo lo statuto dell’Utopia, ma anche la storia della sua parabola che si conclude con il grande fallimento delle Utopie moderne, proprio nell’atto della loro concreta attuazione, ed il conseguente proliferare di anti-utopie, o utopie negative, che annunciano non la realizzazione della felicità e del paradiso in terra, ma del più terrificante inferno. Come è stato detto: il «campo di concentramento della felicità» (6).

Il sogno illuministico di una ragione umana in grado di progredire illimitatamente verso il meglio, il sogno di perfezionamento e di totale emancipazione dell’uomo, persino dal dolore e dalla morte, come dallo spazio e dal tempo, insomma dalla sua propria finitezza, lascia il passo all’incubo che, per primi, scrittori come Huxley o Orwell hanno prefigurato.

La promessa utopica di realizzare il regno della perfetta felicità ed armonia si rivela dunque – e lo ha ampiamente testimoniato la storia del secolo scorso – come la concreta e minuziosa edificazione di un perfetto inferno. L’utopia della Città felice si capovolge nell’anti-utopia del terrore totalitario. Né d’altra parte possono soccorrere le utopie “regressive”: esse rivelano molto chiaramente il loro carattere meramente reattivo e francamente reazionario, proprio perché collocano all’inizio ciò che l’utopia moderna “progressiva” collocava alla fine. L’ideologia del regresso non è che il contro movimento dell’ideologia del progresso e, come quest’ultima non era che escatologia secolarizzata, il voler tornare all’Inizio non è che nostalgia di un’Origine incorrotta, del Paradiso terrestre dal quale siamo stati scacciati e al quale si presuppone si possa far ritorno.

Movimento rivoluzionario sorto come critica dell’esistente e come ricerca del migliore dei mondi possibile, l’Utopia, inseguendo l’impossibile, cioè il miraggio della perfezione e dell’Illimite, finisce con il realizzare non il regno della felicità e della concordia, ma il mondo pianificato e omologante di un universo totalitario.

In tutta la letteratura utopistica la ricerca dello Stato perfetto conduce, infatti, alla costruzione di una grande Macchina, di un perfetto Ingranaggio, in virtù del quale la concordia sociale si trasforma in ferrea adeguazione delle parti al Tutto, con la conseguente omologazione e uniformazione di comportamenti e convinzioni. Ogni dissenso, ogni critica dell’esistente – da cui pure la spinta utopica era sorta – non può che sparire, giacché ogni difformità può far inceppare il buon funzionamento della Macchina e produrre disordine e conflitto, compromettendo il buon funzionamento dell’insieme. Regno del Bene Assoluto, emendato dal peccato, il regno utopico non può che combattere ad oltranza tutto ciò che, fuori o dentro di esso, lo contraddice. Dunque l’eresia è ciò che, dall’interno, minaccia ogni utopia e, proprio per questo, essa va estirpata sul nascere, rappresentando il pericolo supremo per l’ortodossia su cui ogni totalitarismo utopico si fonda. Di qui il carattere intrinsecamente autoritario e repressivo, l’unidimensionalità – per impiegare un termine di Marcuse – che necessariamente accompagna i progetti di realizzazione utopica. Anche per questo lo spazio dell’Utopia è quello dell’Isola, dell’Isolamento necessario affinché non si possa entrare in contatto con nessun Fuori, con nulla che, dall’esterno, possa minacciare e intaccare la perfezione di quest’Ordine tanto più violento e assoluto, quanto più astratto.

In questo spazio claustrofobico, chiuso come un recinto dal mare, si può essere felici solo a patto di una drastica rinuncia alla libertà e alla singolarità.

Città del Sole, nel regno utopico una luce abbagliante trafigge l’esistente: in esso non possono esservi né ombre, né crepuscoli, né, tantomeno, tenebre – non a caso l’Illuminismo ne sarà l’epoca d’oro. Illuminata a giorno, la notte viene scacciata per sempre dall’Isola di Utopia, così come tutto ciò che è occulto e segreto, dal momento che essa celebra il culto dell’evidenza e del manifesto. Proprio per questo non vi può essere distinzione tra pubblico e privato: il foro interiore, con la sua oscurità, potrebbe essere ricettacolo di dissenso e di resistenza, mentre solo l’assoluta trasparenza può garantire il concordare degli uni con gli altri, senza riserve.

Drastica reductio ad unum, Regno dell’Uno senza i molti, lo spazio di perfetta immanenza dell’Utopia tradisce il suo carattere totalitario. Ordine del meccanismo, la società utopica non realizza la felicità che promette: in essa i sentimenti dominanti sono la noia e il terrore. Volendo realizzare l’assolumente Nuovo, essa realizza, invece, il tedio dell’eterno ritorno dell’uguale; aspirando alla Pace perpetua, essa fomenta una guerra preventiva, permanente e senza scampo, dal momento che impone un controllo capillare e assoluto, cui nessuno può sfuggire. Il suo abitante ideale, infatti, è l’Automa e il suo tempo – fuori dalla Storia – l’Eterno presente. Infatti l’Utopia, con la sua «ossessione del definitivo» (7), di un assetto stabile e di un ordine onnipervasivo, con l’idea del compimento e del raggiungimento del traguardo ultimo della Perfezione, in realtà proclama la fine del tempo e della storia. Trascrizione secolarizzata del Regno messianico, il regno utopico si colloca nell’eschaton, all’estremo limite di quel tempo escatologico che segna l’Avvento di una nuova Terra, seppure ormai priva di Cielo. Se la perfezione è raggiunta e l’ideale realizzato, come potrà ancora trascorrere il tempo, quale Novitas si dovrebbe ulteriormente annunciare? Per questo assolutamente statiche e senza storia, come senza apertura al Possibile, appaiono le costruzioni utopiche, nella realizzazione del loro ideale. Nessun evento potrebbe più accadervi, dal momento che il Possibile viene immobilizzato e la Storia appare chiusa definitivamente.

Da ciò si comprende, anche, come Utopia sia, in realtà, l’opposto di polis. Il luogo che infatti ou-topia nega è proprio lo spazio del Politico. Dal momento che il modello è quello tecnico del funzionamento dell’ingranaggio sociale, ecco che i conflitti non trovano una composizione politica, ma immediata risoluzione tecnica.

Spazio di una radicale spoliticizzazione, l’utopia, anche quando si ammanta di un’ideologia politica, in realtà rivela il suo presupposto nella teologia completamente secolarizzata della tecnica, in quanto progetto di auto-produzione di sé.

 

Note:


1. C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum Europaeum», tr. it. di E. Castrucci, Adelphi, Milano 1991, pp. 215-216. Per un approfondimento di questi temi mi permetto di rinviare a C. Resta, Stato mondiale o Nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Pellicani, Roma 1999.
2. Su tema del Luogo e della de localizzazione causata dalle logiche nichilistiche mi sono soffermata, con riferimento al pensiero di Heidegger, in C. Resta, Il luogo e le vie. Geografie del pensiero in M. Heidegger, Angeli, Milano 1996 e Id., La Terra del mattino. Ethos, Logos e Physis nel pensiero di Martin Heidegger, Angeli, Milano 1998. Per una più ampia riflessione geofilosofica sul concetto di Luogo, anche il relazione a quello di “paesaggio”, il rimando d’obbligo è ai lavori di L. Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 20012 e Id., Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, Arianna, Casalecchio (Bo) 2002.
3. «Nella connessione esistente di utopia e nichilismo si può infatti vedere che solo una definitiva e radicale separazione tra ordinamento e localizzazione nello spazio può essere detta nichilismo in un senso storico specifico» (C. Schmitt, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum Europaeum», cit., p. 53). Per una lettura in chiave geofilosofica dell’utopia, anche in riferimento al nichilismo e al processo di deterritorializzazione e delocalizzazione generato dalla “decisione” dell’Isola Inghilterra per il mare, sempre sul solco delle illuminanti analisi di Schmitt, cfr. M. Cacciari, L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1997.
4. E.M. Cioran, Storia e utopia, a cura di M.A. Rigoni, Adelphi, Milano 1982, p. 103.
5. Tra gli altri, lo ha denunciato a più riprese, con la radicalità che gli è propria, Sergio Quinzio: «l’avanzamento della tecnica è quello che ci salva […]. La sua unicità, che ci fa ritenere lecito e necessario imporla a tutto il mondo, la rivela come l’ultima forma, definitivamente anticristica, assunta dal monoteismo, e anch’essa svuotata, ormai, di ogni originaria spinta redentiva» (S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1992, p. 82). Per una più approfondita riflessione sul carattere “totalitario” della tecnica, mi permetto di rinviare a C. Resta, Heidegger e il tecnototalitarismo planetario, in AA. VV., Heidegger e gli orizzonti della filosofia pratica. Etica, estetica, politica, religione, a cura di A. Ardovino, Guerini e Associati, Milano 2003.
6. M. Baldini, I “Nemici” dell’utopia, in AA. VV., L’Utopia, Edizioni G.B.M., Messina 1984.
7. E.M. Cioran, Storia e utopia, cit., p. 129.

pagine 1 - 2 - Pelagos