Tavola rotonda al Festival di Filosofia
di Cosenza sul tema: Utopia/Eresia
Cosenza, 21-23 maggio 2004
Caterina Resta
L’utopia della felicità pubblica.
Comunità
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2. La comunità
L’utopia della felicità pubblica è
soprattutto l’utopia della comunità, della com unione, del
raccogliersi in Uno dei molti, di raggiungere la concordia cancellando
le insanabili contraddizioni che abitano la città, attraverso la
drastica riduzione allo Stesso.
Che sia immaginata come Meccanismo o come Organismo, l’idea della
comunità rivela comunque, nel suo carattere di totale immanenza
a se stessa, il suo presupposto totalitario e il sacrificio necessario
delle differenze che essa comporta (8).
La comunità che si realizza come la propria opera – per usare
un’espressione di Jean-Luc Nancy – deve accomunare la molteplicità
di cui si compone, fonderle e con fonderle
in un Identico che sia proprio a tutti e di cui tutti si possono appropriare,
cancellando così ogni differenza e alterità, riducendo a
Uno la pluralità irricomponibile che la costituisce ed elevandola
a unico Soggetto, che si appropria di sé. Ma, per far questo, essa
deve radicalmente cancellare ogni differenza, in un infaticabile lavoro
di riduzione dell’altro allo Stesso. Questa è l’opera
della comunità ed il suo utopico, quanto totalitario, progetto.
Nell’appartenenza comunitaria ritorna, anche, l’istanza cristiana
della comunione, l’idea di una koinonia
che, realizzandosi in Cristo, unisce indissolubilmente
in un unico corpo mistico i fratelli. Ma, proprio per il fatto di esserne
la versione secolarizzata, la comunità fusionale abolisce anche
quel riferimento alla trascendenza che impedisce alla comunità
cristiana, nonostante tutto, di potersi chiudere in sé, lasciando
comunque aperto, seppure nella verticalità, lo spazio per un’alterità
irriducibile.
Dopo il crollo delle grandi ideologie comunitarie – nazionalsocialismo
e comunismo – che ha provocato una scossa potente, l’idea
che la comunità possa rappresentare il modello della realizzazione
della felicità pubblica è lungi dall’essere tramontata.
Anzi, nuovi fondamentalismi e nuovi comunitarismi si affacciano all’orizzonte,
spesso in forma puramente reattiva rispetto al prevalere di logiche puramente
individualistiche e solipsistiche. E tuttavia, solo uscendo da questa
falsa alternativa, quella tra comunità e individualismo, è
possibile avvicinarsi ad un’altra idea di legame sociale, il solo
che, pur non promettendo alcuna felicità o concordia assolute
o permanenti, tuttavia sia in grado di salvaguardare
al tempo stesso la con divisione e la separazione, lasciando aperte le
porte della polis alla venuta dell’altro,
nel rispetto irrinunciabile di differenze che non devono essere cancellate,
anche se chiamate a con esistere nel medesimo Luogo.
È solo a partire dal disastro della comunità e dall’abbandono
definitivo di ogni Utopia, come pretesa di raggiungere la Perfezione,
che il Politico potrà ripensare lo spazio della polis
come luogo della composione – certo mai definitiva – del conflitto,
in cui esistenze singolari si espongono nella loro radicale finitezza:
spazio necessariamente aperto all’altro, alla sua irriducibile alterità
che non consente nessuna chiusura immanentistica nel segno di una condivisione
originaria che caratterizza le esistenze come con esistenze.
Contro l’utopica pretesa della perfezione, questo essere in comune
ha come suo primo, fondamentale assunto quello del carattere infinitamente
finito dell’esistenza, la quale è
costantemente esposta all’altro. Essere
finiti significa infatti non potersi in alcun modo appropriare
di sé, non potersi chiamare “io”, se non a partire
dall’altro. Che altri venga prima di
me significa che non l’identità, ma il rapporto di o tra
le alterità è quella differenza originaria che impedisce
ogni risalimento all’Uno, all’Identico (9).
All’origine non l’Uno, ma la Relazione è ciò
che costituisce ed istituisce le singolarità finite nell’esposizione
dell’una all’altra. Per questo il concetto stesso di individuo
appare del tutto fuorviante, mero illusorio risvolto del mito di una comunità
intesa come con fusione di soggetti precedentemente separabili. Che il
‘con’ venga prima, significa piuttosto che all’inizio
c’è la con divisione, il paradosso di un rapporto di separazione.
La comunità delle esistenze finite, infinitamente esposte le une
alle altre nella con parizione alla quale non saprebbero come sottrarsi,
questa comunità non potrebbe chiudersi in sé in uno spazio
d’immanenza, non potrebbe dire “noi”, se non al prezzo
di tradire la propria essenza, che è quella di mancare sempre a
se stessa nell’apertura infinita di un tra
noi, che interpone una distanza ed una differenza, le quali alterano e
impediscono ogni possibile riappropriazione di sé. Per questo nessuna
com unione è integralmente realizzabile là dove la finitezza
consegna le esistenze alla necessità di con esistere in una distanza
incolmabile, al paradosso di una separazione che è al contempo
rapporto. L’essere-in-comune si dà solo nella dissoluzione,
nello slegamento, nell’intervallo, nell’interruzione, tanto
che si potrebbe dire che questa singolare comunità, comunità
dei singolari-plurali (10), possiamo
coglierla solo nel momento del suo venir meno. Ma questo inevitabile mancare
a se stessa, il fatto che il suo ‘proprio’ si riveli nella
inappropriabilità di qualcosa di comune, non fa che esibire l’essere
in comune delle esistenze, il loro essere
già da sempre esposte all’alterità, la quale non è
la loro comune essenza, ma il loro inevitabile e originario comparire
le une alle altre.
Ma se la comunità non è che il nome della pluralità
di esistenze finite infinitamente esposte le une alle altre, al contempo
insieme e separate, se la comunità è sempre aperta da ciò
che la interrompe, che ne impedisce la chiusura su di sé e la riappropriazione
di sé, essa, allora, non è altro che l’accadere
della co esistenza: dal momento che accade,
essa non è un dato e neppure potremmo
dire che cosa ‘è’: la comunità è un evento,
è, precisamente, una comunità che viene, che avviene, è
la comunità dell’evento dell’altro.
Se essa esibisce la dissimmetria e l’incomparabilità di quei
singoli di cui si costituisce destituendosi, se mostra lo slegamento e
la dissociazione che separano e impediscono drasticamente la con fusione,
se, infine, è l’alterità molteplice delle esistenze
singolari ed uniche che in essa con paiono, ciò tuttavia non significa
che la disseminazione delle esistenze possa essere semplicemente pensata
come la polverizzazione o la dispersione di piccole monadi, ciascuna differente
e indipendente dall’altra. La pluralità singolare delle esistenze
è, al contrario, il loro essere-in-comune, l’esposizione
immancabile ed ineludibile dell’una all’altra, la differenza
comune che si rivela non-indifferenza.
Si tratta, certo, di un paradosso quando affermiamo che, in questa comunità,
la separazione diviene rapporto ed il rapporto è concepibile sempre
solo come interruzione. La comunità degli altri è allora
una comunità di estranei, ma non di indifferenti, poiché
è la con divisione dell’alterità che li lega, differenziandoli,
separandoli gli uni dagli altri. L’estraneo che li spartisce è
la medesima estraneità che condividono. Non poter mai giungere
a sé vorrà anche dire restare altri, per sé, come
per altri, essere stranieri tra stranieri, mai davvero a-casa-propria.
L’essere-con dell’in comune sarà allora un essere-con-l’altro
nel senso di un essere-con-lo straniero (11).
La venuta dell’altro, se è dell’altro, deve infatti
salvaguardarne l’alterità, evitando la riduzione allo Stesso.
Per questo la comunità degli altri è la comunità
degli stranieri, di coloro che non hanno niente in comune, poiché
condividono l’improprietà dell’esistenza e, a causa
di essa, sono esposti ad un fuori che impedisce ogni chiusura in sé,
ogni compimento di sé.
Questi sono i paradossi cui va inevitabilmente incontro un essere-in-comune
di singolarità irriducibili l’una all’altra, inaccomunabili,
inassimilabili, non omologabili, eppure insieme,
separate da una distanza che tuttavia non le allontana del tutto, ma anzi
le attrae irresistibilmente le une alle altre.
Questa è, dunque, la domanda cruciale, cui l’Utopia non ha
saputo dare risposta: è possibile, è pensabile essere-con-altri
senza diventare gli stessi, senza diventare Uno? Ciò è possibile
solo se l’essere in comune descrive lo spazio di identità
sempre istituite e destituite a partire dall’altro, mai chiuse in
sé, ma radicalmente aperte ad accogliere la venuta dell’altro.
Accoglienza, ospitalità : non vi sono altre parole per nominare
quel legame che slega, quella separazione che unisce, quell’inusitato
rapporto che lascia essere differenti. L’ospitalità di cui
parliamo, tuttavia, non è semplice esperienza dell’accoglienza,
se non nel senso radicale per cui la precedenza dell’altro, il suo
ontologico venir prima di me, ha il significato di un’ospitalità,
di un’apertura senza riserve, di una estroversione che precede ogni
a-casa, ogni possibile chiusura. L’ospitalità, dunque, precede
la proprietà e ogni possibile appropriazione anche di sé:
è quella originaria apertura che precede e impedisce ogni chiusura,
rendendo semplicemente impossibile uno spazio di totale immanenza.
Accoglienza offerta all’altro prima di ogni etica, diritto o politica,
prima persino di ogni libera decisione o volontà, lo spazio che
si schiude è quello di una comunità degli ospiti, di coloro
che ontologicamente sono, in quanto esistenti,
aperti, esposti alla venuta dell’altro. Per questo la loro comunità
è impossibile, poiché ogni altro ne impedisce la chiusura
su di sé, dal momento che viene accolto in sé. Ma, d’altra
parte, proprio per questo essa si offre come dono,
un dono che si elargisce obbligando al di là di ogni possibile
restituzione, perché dono dell’altro, dell’inappropriabile,
di ciò che, non essendo proprio, ci espropria.
È ancora ‘politica’ l’idea di questa comunità
dell’ospitalità incondizionata? Certo essa contrasta fortemente,
mettendolo radicalmente in discussione, con il modello di quella comunità
di amici e di nemici, la cui logica oppositiva ha costituito – come
ha ben visto Schmitt – il paradigma del Politico giunto al suo compimento
nell’Età moderna . Amici e nemici si fronteggiano per difendere
fino alla morte il loro ‘proprio’, un’identità
che solo nel confronto, e meglio ancora nello scontro, può delinearsi,
marcando netti i confini tra soggettività contrapposte e identiche
a sé. La logica dell’hostis,
del nemico, ha come suo alter ego quella
dell’amico, nella convinzione di poter, volta per volta, discriminare,
decidere, separare gli uni dagli altri, affinché ciascuno possa
trovare la propria identità e appartenenza in un essere comune
appropriato. La logica paradossale dello
hospes e dell’ospitalità è
invece tutt’altra e scompagina queste rassicuranti partizioni, restituendole
a tutta la loro indecidibilità. Niente hanno in comune esistenze
singolari, salvo il loro stesso in comune,
il con del loro essere le une con
le altre, aperte, esposte le une alle altre. Ma quale politica potrà
mai farsi carico di questa ‘strana’ comunità degli
stranieri, fondata sulla filoxenia? Non appare
ancora una volta utopico e persino ingenuo un simile pensiero? Eppure
questa sarebbe l’unica politica in grado di corrispondere alla venuta
al mondo di esistenze finite, l’unica capace di farsi carico dell’evento
dell’altro e di decostruire fino in fondo quella politica –
forse dovremmo dire La politica – fondata
sull’archetipo del fratello-nemico, su questo forte richiamo biologistico
al tema etnico della nascita, della natalità, della nazionalità,
dell’omofilia come dell’autoctonia,
e soprattutto dell’isonomia, cioè dell’uguaglianza,
della simmetria e della reciprocità. Ospitalità, allora,
non sarebbe una parola tra altre, da sostituire ad altre, ma il nome stesso
di quest’altra comunità – la comunità degli
altri – e di quest’altra politica, una politica aperta all’altro
– anche all’altro di sé –, nella misura in cui
altri non è né fratello-amico né fratello-nemico,
ma, appunto, lo straniero, l’estraneo, il differente da accogliere.
Ecco perché ospitalità potrebbe essere il nome più
appropriato per quest’altra politica
e per una democrazia a-venire, decretanto il definitivo tramonto della
stagione delle utopie, come di qualsivoglia logica identitaria, che preveda
l’esclusione dell’altro.
8. Sul carattere di immanenza – e dunque totalitario” –
di ogni idea di comunità ha efficacemente posto l’accento
J.-L. Nancy, La comunità inoperosa,
tr. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1992; ma cfr, anche R. Esposito,
Communitas. Origine e destino della comunità,
Einaudi, Torino 1998.
9. Questa precedenza dell’Altro, com’è noto, è
al centro di tutta la riflessione di Emmanuel Lévinas.
10. Cfr. J.-L. Nancy, Essere singolare plurale,
tr. it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2001.
11. Di questa “comunità degli stranieri” ha parlato
M. Cacciari nelle ultime pagine di L’Arcipelago,
cit.
12. Il tema dell’ospitalità è al centro della più
recente produzione di J. Derrida, di cui si veda soprattutto: J. Derrida,
Politiche dell’amicizia, tr. it.
di G. Chiurazzi, Cortina, Milano 1995; Id., Sull’ospitalità.
Le riflessioni di uno dei massimi filosofi contemporanei sulle società
multietniche, tr. it. di I. Landolfi, Baldini & Castoldi, Milano
2000; Id., Addio a Emmanuel Lévinas,
tr. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Jaca Book, Milano 1998. Per una
più ampia trattazione di questi temi presenti nel pensiero dell’ultimo
Derrida, rinvio a C. Resta, L’evento
dell’altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Bollati
Boringhieri, Torino 2003. Per una più specifica analisi dell’idea
di una comunità pensata a partire dall’ospitalità
rimando a C. Resta, Comunità e ospitalità,
“Oltrecorrente”, 6, 2002, pp. 103-116.
13. Cfr. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’
(1932), in Le categorie del ‘politico’.
Saggi di teoria politica, a cura di G. Miglio e di P. Schiera,
il Mulino, Bologna 1972. Il paradigma amico-nemico, così lucidamente
riconosciuto da Schmitt a fondamento del politico, andrebbe, da questo
punto di vista, rimesso in discussione, come espressione di un concetto
di politica che parte dal presupposto di una logica dialettica e identitaria.
14. Sul rapporto hostis-hospes si rimanda
alle fondamentali pagine di E. Benveniste, voce L’ospitalità,
in Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee,
a cura di M. Liborio, Einaudi, Torino 1976, I, pp. 64-75.
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