Home - Geofilosofia.it SITO ITALIANO
DI GEOFILOSOFIA

Regione Lombardia
Provincia di Sondrio
Università di Pavia

2. Prasomaso

Davanti alle rovine imponenti dei “Sanatori popolari milanesi” di Prasomaso, nel territorio del comune di Tresivio, e al loro impressionante stato di degrado, è difficile rimanere indifferenti, perché la transizione dall’utilizzo effettivo, fino al 1977, allo stato attuale di rovina è stata particolarmente rapida e vandalica (come anche è accaduto per una parte dei fabbricati di Vallesana a Sondalo) e purtroppo sembra indicare come un patrimonio edilizio e storico possa cadere vittima inerme di un manipolo di teppisti, nonostante il rammarico e il dolore di quanti vi hanno vissuto e lavorato, in mancanza di una forte coscienza collettiva e di una precisa responsabilità istituzionale. Oggi, nonostante sfascio, saccheggio e oltraggio perpetrati, gli edifici di Prasomaso e il loro parco inselvatichito appaiono come un’involontaria ma lacerante monumentalizzazione della questione della memoria culturale nel nostro tempo di suicidari oblii e di incapacità e immaginazione gestionale, e anche un’inquietante testimonianza di violenza sradicata e qualunquistica.
In questo caso, tuttavia, il comune di Tresivio ha incoraggiato la salvaguardia della memoria e la storia della nascita e della vita dei sanatori è stata raccontata e tramandata, soprattutto in ciò che attiene alle ricadute e trasformazioni del territorio comunale (7), con ampio spazio per le testimonianze dei residenti che vi lavorarono. Appare più di sorvolo l’attenzione sulla costruzione posteriore dell’ “Alpina”, ad Alpemugo, le cui caratteristiche erano pressoché identiche ai padiglioni – abbattuti alla fine degli anni ’50 – dell’“Abetina” a Sondalo, le cui facciate sopravvissute, assalite da un’invasiva vegetazione, costituiscono uno spettacolo drammatico e di fortissima suggestione evocativa, oltre che una testimonianza edilizia altrove scomparsa.
Anche in questo caso lodevole, tuttavia appaiono carenti, se non assenti, approfondimenti estetici e architettonici, pur se lo spettacolo davvero grandioso e sconvolgente delle rovine non ha mancato di colpire qualche artista e fotografo. La stessa documentazione che viene pubblicata nell’ambito di questa ricerca reca tracce di tanta sublime desolazione, assieme ad alcuni elementi rilevanti anche in termini di archeologia impiantistica.
Intorno a Prasomaso, negli ultimi anni, sono state avanzate proposte di riqualificazione e rilancio innovativo delle strutture e del comprensorio da parte di chi vi individua la sede elettiva per un’auspicabile struttura universitaria o di alta formazione professionale in Valtellina. Questo tipo di proposte appare consono alla specificità e alla vocazione del luogo e degli spazi costruiti esistenti: in generale, le strutture ex sanatoriali posseggono già una conformazione che con pochi adattamenti le renderebbe atte ad accogliere un insediamento volto alla formazione. Inutile sottolineare le opportunità di una simile prospettiva, in termini di ricadute culturali, turistiche, formative, occupazionali. Vale piuttosto la pena di ribadire, in questa sede, come anche in questo caso verrebbero amplificate le caratteristiche d’identità culturale di un territorio precisamente e significativamente contrassegnato fino dalla più remota antichità e poi in epoca storica attraverso un peculiare riconoscimento dei caratteri naturali e simbolici dei luoghi (il Calvario, la Santa Casa, il contesto delle eminenze collinari e dei castelli sulla stessa sponda valliva). Da questo punto di vista, il sanatorio appare come un ulteriore e non peregrino tassello nel tessuto simbolico territoriale, contrappunto moderno di un ideale di risanamento di cui il Santuario lauretano a Tresivio è il monumento religioso e sacrale.
Un’altra ipotesi di restauro e valorizzazione delle strutture di Prasomaso e dell’Alpina potrebbe essere intravista nell’idea di un ecomuseo del territorio, che cominci ad assumere e comunicare anche la rilevanza dei “monumenti del moderno” (sanatori, centrali idroelettriche, cave dismesse, ecc.) nella fisionomia del paesaggio culturale valtellinese, restituendo la consapevolezza e la percezione del “paesaggio” come tessitura complessa e polifonica di realtà monumentali, insediative, ricreative, agricole, in cui i vari elementi trovano senso dalle reciproche relazioni che disegnano la mappa storica dell’uso e della simbolizzazione delle possibilità locali. In questa prospettiva è opportuno riferirsi alle esperienze che in Italia, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, hanno riconfigurato l’approccio all’eredità culturale: la diffusione degli ecomusei, che sovverte alcuni dei cardini della pratica museale tradizionale e, al contempo, si orienta nella stessa direzione dei principi che informano le direttive della Convenzione europea del Paesaggio, ora ribadite anche nel nuovo Codice dei beni culturali e paesaggistici (2004), proponendo la valorizzazione dello spessore diacronico del paesaggio, “allo scopo di ricostruire, testimoniare e valorizzare la memoria storica, la vita, la cultura materiale, le relazioni fra ambiente naturale ed antropizzato, le tradizioni, le attività ed il modo in cui l’insediamento tradizionale ha caratterizzato la formazione e l’evoluzione del paesaggio(8).

Fra le linee metodologiche che guidano la costituzione di queste nuove forme di trasmissione dell’eredità culturale un ruolo chiave rivestono “le caratteristiche geo-storiche degli ambiti territoriali nei progetti; la stessa importanza concettuale data a tutti i Beni Culturali (monumenti, oggetti d’arte, manufatti, oggetti d’uso); il privilegio accordato alle concatenazioni fra punti museali piuttosto che alla qualità di eccellenza di elementi isolati” (9). Di là delle diversissime modalità di realizzabilità di ciascuna realtà ecomuseale, si delinea, attraverso la loro diffusione, una nuova sensibilità dei fruitori e un’idea di conservazione che rifiuta la decontestualizzazione degli oggetti dalla realtà geostorica in cui hanno trovato collocazione, e dunque riconosce l’unità non scomponibile del paesaggio in quanto luogo delle espressioni culturali nel tempo (10) e la necessità della sua preservazione e trasmissione in termini divulgativi, educativi, pratici, non meno di ricadute virtuose sul territorio anche dal punto di vista sociale ed economico. Pur trattandosi di un fenomeno, soprattutto in Italia, piuttosto recente, esso è stato favorito a vari livelli politici e istituzionali (dalla Comunità Europea, attraverso i progetti Leader+, e dalle Regioni in particolare), trovando una significativa rispondenza nelle comunità locali, che dovrebbero esserne i principali soggetti di proposta e gestione. Alla priorità accordata all’identità territoriale corrisponde l’individuazione dei fruitori negli abitanti, prima che nei turisti: “Gli Ecomusei raccolgono, conservano e valorizzano la nostra eredità. Quello che ci identifica come abitanti di un luogo e ci lega come persone. La natura e gli oggetti dell’uomo, la cultura vissuta e le tradizioni” (11). Dunque non solo protezione e recupero di nuclei abitati, oggetti, colture e percorsi, ma luogo in cui la comunità riflette sulla propria storia, sulle modalità di interazione con l’ambiente e la tradizione e ri-assume le proprie radici – “una sorta di scuola della ‘coscienza storica’” depositata nella configurazione dei luoghi, che comporta azioni di tutela e intellezione estese a interi segmenti paesaggistici e ad ampi comprensori territoriali.
È della massima rilevanza sottolineare come siano innanzitutto i “locali” i destinatari dei progetti di riattivazione, salvaguardia e partecipazione del patrimonio di cultura di un determinato territorio, in quanto essi ne devono anche diventare i “normali” gestori e trasmettitori (da qui il coinvolgimento delle scuole e delle giovani generazioni nel riappaesamento nelle proprie tradizioni). Il che consente di valorizzare le singole specificità, indipendentemente da graduatorie di eccellenza e spettacolarità del bene culturale, consentendo importanti opportunità anche per quelle che erano considerate “aree depresse” nella monocultura industriale, e che oggi si trovano invece ad offrire risorse naturali, ambientali e culturali meno compromesse, oltre che a farsi laboratorio di nuovi stili di rapporto con i luoghi e di individuazione dei “valori” con cui un territorio può rendersi riconoscibile anche all’esterno e in un orizzonte di crescente globalizzazione (per esempio le denominazioni e i marchi che identificano in modo esclusivo i prodotti di un territorio). Da questa significativa impostazione “geofilosofica” discende una evidenziazione della straordinaria ricchezza delle realtà culturali territoriali, non sussumibili in ambiti generalisti (siano essi le razionalizzazioni amministrative, politiche, disciplinari o i contenitori astratti di concetti omologanti, come la cosiddetta “cultura materiale” (12)).

pagine 1 - 2 - 3

Luisa Bonesio
I sanatori della Valtellina