Luisa
Bonesio
L'evoluzione del sentimento estetico
delle Alpi
tra Settecento e Novecento |
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Lezione tenuta nel Corso “Anche
le montagne hanno una storia”,
Varese, giugno 2002, in corso di pubblicazione |
2. Sguardi d’altura
La penetrazione nel cuore dei monti, la conquista di
vette e l’esplorazione dei ghiacciai consente anche alla pittura
e alle incisioni e, tramite la diffusione delle loro riproduzioni, a strati
sempre più estesi di popolazione, di guadagnare punti di vista
sempre più elevati. Le montagne perdono progressivamente quell’affilatezza
e spigolosità esasperata di profili, la verticalità diviene
meno schiacciante, le pareti meno erte; complessivamente gli angoli d’inclinazione
dei pendii si fanno meno ripidi, e lo sguardo si concentra sulla dimensione
dei ghiacci perenni. Già per tempo c’erano state incisioni
con raffigurazioni di ghiacciai, ritratti come un mare tempestoso congelato,
irto di emergenze appuntite, tavolata dalle creste quasi arricciate o
di guglie dalle fogge fantastiche, spesso popolato di esploratori dotati
di lunghe pertiche o di scale: erano i tempi delle prime ascensioni alpinistiche
o naturalistiche, che presto si sarebbero trasformate nella moda dell’ascensione
per diletto, non riservata ad alpinisti provetti, ma accessibile a un
pubblico anche femminile.
Al di là del tema specifico della mer de
glace, si può osservare come la conquista di punti di vista
più elevati modifichi la prospettiva, aprendo nuovi orizzonti.
Le montagne hanno sempre opposto una specifica difficoltà a essere
ritratte senza che ne fosse sminuito l’effetto sublime: per questo,
passando progressivamente dallo sfondo del quadro al primo piano, diventa
inevitabile la sensazione di ripetitività della pittura che le
ritrae: la lontananza prospettica dalla quale esse possono esercitare
il loro effetto sull’osservatore costringe a una rappresentazione
che ne privilegia l’insieme, e dunque la massa e il profilo. Ciò
che è consentito dall’avvicinamento sono gli scorci singolari,
gli effetti pittoreschi delle rocce e delle cascate, i laghetti, le forre,
anch’essi necessariamente ripetitivi e costretti a misurarsi con
la chiusura, spesso ravvicinata, dell’orizzonte. La conquista di
altezze più elevate, corrispondente all’abitudine a frequentare
esteticamente, naturalisticamente e sportivamente zone meno immediatamente
accessibili, consente di scoprire nuove forme e inedite attrattive artistiche
della montagna: innanzitutto l’apertura di un orizzonte dall’alto,
e poi la possibilità di cogliere la connessione delle catene e
l’avvicendarsi delle dorsali, che diminuisce significativamente
la sensazione, sulla quale le poetiche del sublime avevano basato la loro
fortuna, dell’isolatezza solitaria delle vette. Se questa nuova
coscienza dispiacerà a quanti continuavano a vedere il “senso”
dei monti nella culminazione aguzza della punta, e dunque nella retorica
della volontà faustiana e della “conquista” - gli alpinisti
-, essa consentirà una nuova comprensione e un diverso accostamento
al paesaggio e alla realtà montana, aprendoli in nuove articolazioni.
Senza ripidità delle pareti, gran parte del fascino (eroico) della
scalata si perderebbe: sono la difficoltà tecnica e il pericolo
a costituire la sfida per l’alpinista, fornendo temi e accenti alla
retorica della conquista. Si potrebbe dire che l’apprezzamento estetico
ed etico della verticalità sono una segnatura profondamente faustiana
dell’amore per le montagne, in modo analogo all’attrazione
per lo sconfinato, il lontano, il nascosto. Ed è la verticalità
a provocare un’analoga sfida di elevazione e di dimostrazione di
potenza nell’uomo che, avendo perduto la reverenza sacrale o le
paure superstiziose nei confronti dei luoghi inaccessibili, esplica la
sua tensione alla scoperta e all’appropriazione.
Ma questa, per quanto sia stata largamente prevalente, non è rimasta
l’unica disposizione estetica ed etica, nemmeno in epoca moderna,
in grado di cogliere “la verità della montagna”. È
rivelatrice l’illuminante polemica che intercorse nella seconda
metà dell’Ottocento tra gli esponenti del Club Alpino inglese
e John Ruskin. I primi erano i rappresentanti della convinzione secondo
la quale la montagna la si conosce solo ascendendola, misurando la sua
altitudine con il proprio corpo, intagliando gradini nel ghiaccio, e non
limitandosi ad apprezzarne l’imponenza da lontano, come un banale
turista o un esteta: “La ripidezza non si esprime in gradi, ma con
il ricordo della sensazione prodotta da un pendio di neve che pare levarsi
in piedi e prendervi a schiaffi; quando, lontani da qualunque umano soccorso,
vi trovate aggrappati come una mosca alle sdrucciolevoli pareti di un
pinnacolo sospeso a mezz’aria” (11).
Rispetto alla intensificazione dell’esperienza emotiva e sensoriale
provocata dall’altezza, che verrà riconosciuta ed enfatizzata
dalla cultura romantica, qui in più viene sottolineato quell’elemento
della padronanza - fisica e mentale - sulla grandezza della natura, reso
possibile anche da una razionalità osservativa, improntata alla
scientificità, poco incline ad avallare l’idea romantica
del Tutto della natura vivente. Sul versante opposto sta la solitaria
ma lungimirante polemica di Ruskin a favore della bellezza
alpestre e dell’elaborazione di un linguaggio estetico in grado
di restituire la verità delle montagne, in cui risuona con vigore
la denuncia verso una cultura che abbassa l’altezza delle vette
alla misura della sua arroganza e volgarità, tanto nell’alpinismo
che nell’industria turistica (12).
In realtà a Ruskin interessava far emergere dalle sue teorizzazioni,
descrizioni e disegni accuratamente naturalistici che le montagne non
sono una sequela di cime irrelate, bensì una totalità, all’interno
del Tutto più ampio della natura; e dunque che non sono tanto la
diagonale e il vertice aguzzo a condensare il senso della montagna, quanto
la linea curva, la continuità strutturale tra una cima e l’altra,
la sinuosità dei crinali e l’arrotondamento dei colli: una
visione assai più “femminile” del monte, che smentirebbe
il senso stesso della retorica “militaresca” e virile della
conquista alpinistica.
Inoltre, a parere di Ruskin, vere cuspidi nelle montagne sono molto più
rare di quanto non si pensi: “È strano come raramente, anche
tra le catene più imponenti, sia possibile trovare un esempio di
montagna veramente appuntita, nel vero senso della parola - con una vetta
alla sommità e ripidi pendii su tutti i versanti” (13).
Anche il mitico profilo del Cervino, un’icona della pittura di montagna
ed esempio principe del sublime fino al Novecento (“A Zermatt il
Cervino, immagine infantile della montagna assoluta, si presenta come
se fosse l’unica montagna in tutto il mondo” (14)),
veniva da Ruskin “decostruito” mediante un’attenta valutazione
degli angoli d’inclinazione delle dorsali e del clivaggio curvo
delle rocce che costituiscono le guglie; del pari, e sempre sulla base
di un attentissimo studio delle forme e degli elementi naturali, le creste
gli apparivano caratterizzate da “una curvatura radiante”.
Non solo la tipologia delle rocce (struttura cristallina, durezza, ecc.),
ma soprattutto l’azione equorea erano da Ruskin valutate come un
fattore decisivo per comprendere la forma attuale (e sempre in divenire)
delle montagne: “La montagna è stata creata con un istinto
regolatore, ma il suo destino finale dipende, ciononostante, dall’andamento
di piccoli, quasi invisibili, rivoli d’acqua, tra le cui sponde
si è instradato il primo acquazzone. I flebili, quasi inavvertibili,
trasudamenti di rugiada tra le sue polveri erano, in realtà, gli
arbitri della sua forma eterna; erano un tocco più dolce del tocco
di un bambino, silenti e delicati come una lacrima trattenuta sulla gota
di una fanciulla, eppure incaricati di fissare eternamente la forma del
picco e del precipizio, di solcare un granito le cui elevazioni avrebbero
spartito la terra e i suoi regni” (15).
Un’ampia sezione della sua monumentale opera sui pittori moderni
è dedicata a una minuziosa spiegazione volta a decostruire l’ideologia
piramidale e cuspidale della montagna (a partire, peraltro, dall’analisi
dei dipinti del più grande pittore romantico di paesaggio, Turner),
sulla scorta di un’approfondita analisi geologica, visuale ed estetica.
Anche nella costituzione delle rocce, secondo Ruskin, si dà a vedere
l’autentica immagine della bellezza, alla cui essenza è indispensabile
la linea curva, nelle forme prodotte dal clivaggio, dall’azione
meteorica, dal dilavamento e dalla caduta: non fratture spigolose, ma
sempre scissioni secondo linee incurvate che esprimono una legge organica
sottostante all’intera natura: “le rocce saranno governate,
nel loro deperimento eterno, dalle stesse regole che guidano l’incurvarsi
della canna e il fiorire della rosa” (16).
Con l’analisi - per certi versi unica - di Ruskin, si affaccia l’idea
che la “gloria delle montagne” non sia racchiusa nella vetta,
nella culminazione della ripidezza, quanto nella decadenza, nel rovinare
dell’insieme che, tra l’altro, genera anche le cime (17).
Dunque rovesciamento singolare dell’ottica verticalizzante da cui
le montagne avevano ricevuto fascino e attrattiva, in una visione che
riconosce lucidamente come frutto di un mediocre effettismo l’esagerazione
sublime e stürmer della terribilità
del paesaggio alpestre, e insieme raccoglie, dell’eredità
speculativa romantica, l’idea di una Naturphilosophie
all’interno della quale l’uomo è solo un componente
di una tessitura assai più ampia e complessa che va riconosciuta
e rispettata integralmente. Ma se questa posizione teorica era destinata
a rimanere a lungo un’eccezione, il sentimento estetico di molte
rappresentazioni, guidato anche dall’osservazione, restituisce comunque
immagini meno “virili” e ascensionali delle montagne: l’arrotondamento
delle rocce ad opera dello scorrimento dei ghiacci, le spaccature e le
seraccate, l’aspetto fossile e abbandonato delle colate glaciali,
e soprattutto pianori e altopiani d’altura in cui lo sguardo riposa
orizzontalmente o può liberamente spaziare davanti e sotto di sé,
scoprendo, dopo i mari di ghiaccio, i mari di montagne (18)
e vallate.
11. Leslie Stephen, cit. in ivi, p.
516.
12. “Voi avete disprezzato la natura; cioè tutte le profonde
e sacre sensazioni dello scenario naturale. I rivoluzionari francesi trasformarono
le cattedrali di Francia in stalle; voi avete trasformato le cattedrali
della terra in piste di gara. La vostra unica
idea di divertimento consiste nel percorrere in ferrovia le loro navate
e apparecchiare la tavola sui loro altari” (J. Ruskin, cit. in S.
Schama, op. cit., p. 518).
13. Secondo Ruskin non erano, nelle Alpi, più di cinque: Finsteraarhorn,
Wetterhorn, Bietschhorn, Weisshorn e Monviso.
14. T.W. Adorno, Teoria estetica, a
cura di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1975, p. 276, che aggiungeva: “sulla
cresta del Gorn, si presenta invece come anello di una catena infinita”.
Cfr. anche la lettura densamente filosofica della figura del Cervino,
esemplarità della montagna che apre, heideggerianamente, il proprio
luogo, in H. Maldiney, Cervino, tr.
it. di M. Del Ranco, Tararà, Verbania 2002.
15. J. Ruskin, op. cit., p. 1469.
16. Ivi, p. 1445.
17. Tema che si troverà significativamente ripreso nel saggio di
G. Simmel, Le Alpi, in Saggi
di cultura filosofica, tr. it. di M. Monaldi, Guanda, Parma 1993.
18. Sui “mari di montagne”, cfr. J. Ruskin, op.
cit., parte V, cap. XV.
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