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DI GEOFILOSOFIA

Luisa Bonesio

L'evoluzione del sentimento estetico delle Alpi
tra Settecento e Novecento

Lezione tenuta nel Corso “Anche le montagne hanno una storia”,
Varese, giugno 2002, in corso di pubblicazione

 

3. Le montagne romantiche e il paesaggio soggettivo

Il periodo delle poetiche romantiche investe il paesaggio, e quello alpino in particolare, di significati che lo riconducono all’interiorità e al sentire soggettivo. La disposizione scientifica e analitica che si era mantenuta all’interno del sentire sublime del XVIII secolo lascia il posto a una trasposizione sempre più accentuata della realtà del paesaggio nel sentire e nell’emotività individuale. La natura diventa, soprattutto nell’effetto di ripetizione a livello di massa, una quinta o un pretesto per mettere in scena la soggettività, sia dal punto di vista della sua umbratilità sentimentale ed estetica, che da quello dell’affermazione della sua volontà ed individualità. È una strada che, tra l’altro, giustifica e fornisce stimoli sempre rinnovati alla pratica agonistica dell’alpinismo (19) e alla focalizzazione della montagna nella vetta. Ma la cima non è, per molti versi, che un’occasione per mettere alla prova un’attitudine tipicamente faustiana e superomistica, in cui la natura in quanto tale è sempre meno considerata, o sarà considerata come materia inerte da vincere e superare. L’atteggiamento estetico romantico, nella sua sostanziale e inclassificabile ambivalenza, si trova magistralmente espresso dal quadro-simbolo dell’epoca, Il viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich, che mette in scena, per così dire, il senso filosofico profondo dell’attitudine romantica nei confronti della natura: il viandante, visto di spalle, rappresentazione en abyme dello sguardo paesaggistico stesso, contempla, in posa inconfondibilmente signorile, una distesa di nuvole da cui emergono vette isolate, in piedi su un’altura che a sua volta ha conquistato. È la raffigurazione dello sguardo del soggetto occidentale, allegoria del dominio effettivo del mondo, ma anche contemplazione estetica che forse, a rigore, non “vede” nulla, o poco, della natura che gli sta di fronte nella sua abissale alterità, ma molto immagina e proietta, compiacendosi di cieli tempestosi e oscuri, retaggio diretto delle poetiche del sublime (20). Nell’idea che la natura del paesaggio montano possa essere ormai solo evocata, si trova la prefigurazione di molte affermazioni circa l’ineffabilità della Natura, compreso il rischio che tale evocazione possa ridursi a un mero “rispecchiamento” della soggettività dello spettatore. Così Caspar David Friedrich affermava che l’arte “deve solo alludere, ma soprattutto stimolare lo spirito, lasciare alla fantasia un campo d’azione, e dunque il dipinto non deve porsi il fine di rappresentare la natura, ma solo di evocarla. Il compito dell’artista non consiste nella fedele rappresentazione del cielo, dell’acqua, delle rocce e degli alberi; sono la sua anima e la sua sensibilità a doversi rispecchiare nella natura. Riconoscere, penetrare, accogliere e riprodurre lo spirito della natura con tutto il cuore e con tutta l’anima è dunque il compito di un’opera d’arte” (21). E questo è confermato dalla pittura stessa di Friedrich (e di molti altri artisti impregnati di temperie romantica), dove a essere rappresentato e descritto non è più, come nella pittura settecentesca, il luogo, bensì “la situazione, la relazione del soggetto con il sito, il suo modo d’essere nell’ambiente naturale, coscienza prospettica della collocazione dell’io nel mondo” (22).

Ma, come si diceva, vi è sicuramente un altro potente tramite che perpetua lungamente il sentire romantico della montagna: l’alpinismo. Senza qui poter entrare nel merito di questioni storiche e tecniche relative a questa attività, si farà un semplice cenno a quella che si potrebbe chiamare l’“ideologia” alpinistica probabilmente più diffusa, l’impulso a conquistare, a “fare” una vetta. È una disposizione che ha una sua precisa collocazione storico-temporale (l’Occidente moderno) e che, da un punto di vista filosofico, diventa comprensibile nel quadro della Stimmung faustiana della civilizzazione occidentale, nell’anelito alla conquista dello spazio, dell’inaccessibile, del lontano, spiegando la pulsione esplorativa e desacralizzante delle sue manifestazioni culturali in nome dello spirito di obiettivazione scientifica: si tratta di un uomo storico che “è attratto dall’Everest non per la vista che può offrire, ma per il record che gli consente di raggiungere. La biblioteca non è per lui il luogo delle Muse, ma uno spazio di lavoro, completo di arredo tecnico. Trascura di onorare i morti, ma va a frugare dentro alle tombe più antiche” (23). Da parte di chi si identifica senza distanza nelle ragioni faustiane della mentalità moderna, le pratiche esplorative, all’interno delle quali si possono situare anche l’alpinismo e il turismo, appaiono invece come “un’attività dettata in ultima analisi dal bisogno dell’uomo di riconoscere e sottomettere con la propria presenza fisica qualunque angolo, qualunque anfratto, qualunque minima o enorme protuberanza o cavità di questa crosta terrestre su cui siamo chiamati a vivere. Tutto ciò rientra - e senza pregiudizio degli aspetti più propriamente sportivi della passione alpinistica - in quelle forme del sapere e della cultura che hanno per oggetto la conoscenza della natura largamente intesa” (24).

Storicamente, non è difficile riconoscere nel Romanticismo la temperie culturale che ha fornito un linguaggio all’apprezzamento estetico della natura selvaggia, da cui in precedenza ci si manteneva a una distanza di sicurezza, aborrendola, in nome dei valori umanistici della messa in forma razionale della natura, come deformità e temendola come luogo del pericolo, dell’ignoto, del numinoso, precondizione di ogni successiva forma d’interesse, anche pratico, verso la peculiarità delle montagne. Al Romanticismo, che appone un’indelebile segnatura estetica, ma anche etica, sugli spazi selvaggi delle Alpi, risale quell’interesse estetico per il primordiale, l’incontaminato, il libero da cui deriverà l’attitudine etica alla preservazione, in quanto valori anche di ordine etico, di queste dimensioni all’interno di un mondo sempre più conformato agli imperativi produttivi dell’economia industriale e sempre meno sensibile agli scempi perpetrati in suo nome a danno della natura e di forme culturali differenti. Ma, come si è accennato, c’è un’ambivalenza romantica nel rapporto dell’uomo con la natura: da un lato esaltata, ricercata per con-fondersi in essa, divinizzata; dall’altro, inestricabilmente, oggetto o pretesto per l’enfatizzazione dell’io individuale, per il compiacimento della sua esaltazione, sensibilità, slancio superomistico.

L’affermazione di Schelling, secondo la quale “ciò che noi chiamiamo Natura è un poema di cui la meravigliosa e misteriosa scrittura resta per noi indecifrabile”, sintetizza filosoficamente la cifra del fascino della montagna destinata a fissarsi nel cliché delle rappresentazioni artistiche e poi del sentire comune. L’uomo che ha vinto l’antica paura per le montagne grazie alle risorse tecniche continua nondimeno a sentirsi sovrastato da una grandezza minacciosa e da una ricchezza di manifestazioni che gli fanno sentire l’inadeguatezza delle sue conoscenze umane-troppo umane, l’insufficienza dei suoi linguaggi a restituire il potente sommovimento dell’immaginazione di fronte a manifestazioni della natura di cui condivide sempre meno il senso.

Se questa è probabilmente la cifra filosofica del sentire romantico, non c’è dubbio che essa costituisca l’avvio non soltanto di una fecondissima stagione pittorica, ma anche del sentimento estetico comune, in cui le montagne diventano il principale soggetto del genere paesaggistico, spazio nel quale l’epoca proietta il proprio desiderio di libertà, solitudine, avventura e selvaggio. Pur senza poter in alcun modo ricondurre a una considerazione unitaria i differenti stili e le diverse personalità di moltissimi artisti, la temperie romantica si lascia riconoscere per la Stimmung dello sguardo portato sulla natura dei monti, e anche per la sua collocazione del punto di vista a un’altezza ideale, che, sotto molti aspetti, il gusto paesaggistico per le montagne non ha più abbandonato, favorito anche, con il trascorrere del tempo, dalle nuove possibilità aperte dalle vie di comunicazione e dai mezzi di trasporto per avvicinarsi alle vette (ferrovie, funicolari, funivie, seggiovie, ecc.). Il punto di vista che consente uno sguardo ampio intorno a sé, dapprima ritratto dai pittori e dagli incisori, diverrà una possibilità di massa con la costruzione di terrazze panoramiche e belvederi, o riprodotto nella finzione dei “panorami” e dei diorami cittadini, ma anche delle strade che attraversano valichi, rendendo accessibile a tutti la percezione del movimento e della concatenazione dei massicci montuosi. Sempre di più ci si porta ad altezze elevate, in vista delle cime, con la distesa delle pianure sotto di sé. È noto che le possibilità di produrre vedute panoramiche o scorci pittoreschi fu deliberatamente sfruttata dai costruttori dei tracciati ferroviari in altura: il movimento reso possibile dai mezzi tecnici moderni dinamizza irreversibilmente la percezione “classica” della montagna come emblema dell’immobilità e dell’eternità, potentemente ribadita nello sguardo dal basso verso la mole maestosa, e al contempo la sottrae dalla sua isolatezza remota, immettendola inesorabilmente e rapidamente nel circuito della comunicazione, rendendola accessibile spazialmente e temporalmente.

Anche se cronologicamente misurabile in pochi decenni, il tempo che separa i dipinti di Caspar Wolf dalla moda dei “panorami” distanzia due mondi ormai eterogenei. Già ampiamente ridotte a cliché cartolinistico, le Alpi, il “terreno di gioco” d’Europa, sono diventate meta di massa, e la loro trasformazione è in atto. È tuttavia da notare come, per molto tempo, il fascino della loro massa rocciosa continui a essere identificato, nell’immaginario collettivo fin quasi ai nostri giorni, con gli scorci e le vedute in cui le poetiche del pittoresco e del sublime l’avevano colta, all’inizio della loro scoperta estetica, nella prima codificazione del gusto paesaggistico. Ancora oggi, se si guardano le foto delle agenzie turistiche che reclamizzano le attrattive di un viaggio alpino, in esse appare riconoscibile, pressoché identica, la messa in forma originariamente sublime di molti luoghi, la ripetizione della scelta prospettica, la valorizzazione - nel diverso medium di rappresentazione - degli stessi effetti. La fascinazione ambivalente e straniante del sublime in cui avvenne l’invenzione delle montagne rimane come appeal fino al marketing turistico: in effetti, la ripetizione del cliché, che nell’arte alta avrebbe portato a un effetto di saturazione, sembra continuare a garantire la riconoscibilità dell’immagine montana come specifico costrutto di una cultura, spesso funzionando anche da inconsapevole e rassicurante protezione rispetto a una vera conoscenza della realtà - naturale e culturale - del mondo alpino.

È infine interessante accennare, come caso esemplare e, per certi versi, eccezionale, a quello che si può considerare l’imprimatur artistico su una vallata alpina tra le ultime ad essere “scoperte” dal turismo: l’Engadina. Altopiano ampio e dai profili dolci, con laghi, circondata da imponenti ghiacciai, enclave culturale che ha saputo mantenere quasi intatta la sua fisionomia architettonica e paesaggistica, è entrata nel circuito di un turismo - soprattutto estivo - caratterizzato da una forte impronta intellettuale, grazie alla duplice investitura di Nietzsche e Segantini. Il primo, che vi soggiornò ripetutamente negli anni Settanta e Ottanta del XIX secolo, la descrisse nelle sue opere e nella sua corrispondenza cogliendone la particolarità, climatica e luministica, di paesaggio “intermedio tra il ghiaccio e il Sud”, in cui le asperità tipicamente montane si trovano stemperate in un’ampiezza e chiarità d’orizzonte abbastanza insolita nelle Alpi (25): “questo luogo stupendo, a cui la mia gratitudine vuol fare dono di una fama immortale” (26). Il secondo la consacrò visivamente in alcuni dipinti (Segantini aveva anche progettato di realizzare una serie di quadri con l’intero giro d’orizzonte per un diorama) che si possono a buon diritto considerare il monumento che ha creato il mito dell’Engadina, della sua luminosità, della felicità delle vette elevate e della trasparenza dell’aria: “Il suo cantico dell’Engadina ha attirato in questa vallata d’altura milioni di persone. […] Poco prima che gli sport invernali schiudessero un nuovo avvenire alle elevate vallate montane, Segantini ha innalzato, nei suoi dipinti, un monumento alla gloria della bellezza e del silenzio dell’alta montagna, facendo vibrare ancora una volta tutte le emozioni dello spirito e dell’anima che si erano destate al tempo di Rousseau e di Goethe” (27). Il tipo di frequentazione che ne è scaturito è stato fortemente improntato alla “filosofia” di queste due codificazioni, e l’Engadina, certamente in misura maggiore rispetto ad altre località delle Alpi, è stata meta intellettuale, artistica e spirituale in piena contemporaneità, rafforzando, anche grazie a questo sguardo non massificato, la vocazione locale alla conservazione e alla valorizzazione della propria identità culturale e paesaggistica. Inoltre, restituendo trasparenza al paesaggio montano, dipingendola nel suo aspetto invernale, Segantini aveva avviato quella smaterializzazione delle masse alpine e quell’effetto di progressiva levitazione che culmineranno nei profili azzurri di Hodler intorno alle superfici dei laghi; ricapitolazione sintetica, quasi un moderno e vibrante geroglifico, dell’immagine montana e dell’immensità del paesaggio, ma anche modalità inedita di realizzare l’idea dell’altitudine, dipingendo solo la parte superiore delle montagne, e non più il corpo intero, e proiettandole, per così dire, verso lo spazio del cielo, spesso raddoppiato dall’apertura beante dei laghi. Ormai conosciuta in tutti i suoi particolari, e consumato l’effetto della mole e dell’elevazione sublime, la montagna può essere allusa nel grafismo vibrante e colorato della silhouette, permettendo così a un importante elemento del paesaggio alpino, i laghi, di essere ritratti al di fuori di ogni ricerca del pittoresco.



Note:


19. Cfr. L. Bonesio, Montagne romantiche e rocciatori dello spirito, in Oltre il paesaggio. I luoghi tra estetica e geofilosofia, Arianna, Casalecchio 2002.
20. Ruskin sottolineava criticamente come fosse propria della pittura contemporanea la predilezione per cieli tempestosi, nuvolosi, per l’oscurità, i contrasti improvvisi di luce, la foschia, i colori scuri, gli scenari tristi, selvaggi e caotici.
21. C.D. Friedrich, Scritti sull’arte, tr. it., SE, Milano 1989, pp. 40-41.
22. S. Pegoraro, Nel solitario cerchio. L’infinito e la pittura di C.D. Friedrich, Pendragon, Bologna 1994, p. 66.
23. E. Jünger, La forbice, tr. it. di A. Iadicicco, Guanda, Parma 1996, p. 157.
24. M. Mila, Scritti di montagna, Einaudi, Torino 1992, p. 24. Per un’analisi dell’ideologia romantica della montagna, cfr. L. Bonesio, Montagne romantiche e rocciatori dello spirito, in Oltre il paesaggio, cit.
25. “In molti paesaggi di natura scopriamo di nuovo noi stessi, con piacevole brivido; è la più bella rassomiglianza.- Come dev’essere felice colui che ha quel sentimento precisamente qui, in quest’aria di ottobre costante e soleggiata, in questo birichino e felice scherzare del vento da mattina a sera, in questa purissima chiarità e mitissimo freddo, in tutto il leggiadro e serio carattere collinoso, lacustre e selvoso di quest’altopiano, che si è accampato senza paura accanto agli orrori delle nevi eterne, qui, dove Italia e Finlandia si sono strette in alleanza e dove sembra esserci la dimora di tutti i toni argentei della natura” (F. Nietzsche, Il viandante e la sua ombra, in Umano, troppo umano II, tr. it. di S. Giametta e M. Montinari, Mondadori, Milano 1970, pp. 241-242). Moltissime sono le affermazioni entusiastiche di Nietzsche sul clima e la bellezza dell’Engadina, in particolare di Sils-Maria: “Recentemente ho visitato la Svizzera dal punto di vista del paesaggio, e mi sono persuaso che Sils-Maria non ha il suo eguale: meravigliosa fusione di mitezza, grandiosità e mistero…” (F. Nietzsche, Epistolario 1865-1999, a cura di B. Allason, Einaudi, Torino 1962, p. 214).
26. F. Nietzsche, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, tr. it. di R. Calasso, Mondadori, Milano 1977, p. 86. Non va dimenticato che fu il paesaggio dell’Alta Engadina a suggerire al pensiero di Nietzsche, tra l’altro, l’idea dell’eterno ritorno, oltre che significativi tratti dello Zarathustra. Sull’importanza che l’Engadina ha rivestito per il filosofo, cfr. C. Resta, Il luogo del pensiero: Nietzsche e la montagna, in Oltre le vette. Metafore, uomini, luoghi della montagna, a cura di A. Stragà, Il Poligrafo, Padova 2000; mentre sulla diffidenza di alcune correnti filosofiche nei confronti dell’estetica della montagna, cfr. L. Bonesio, Montagne romantiche e rocciatori dello spirito, cit.
27. U. Christoffel, op. cit., p. 117.


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