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DI GEOFILOSOFIA

Luisa Bonesio

L'evoluzione del sentimento estetico delle Alpi
tra Settecento e Novecento

Lezione tenuta nel Corso “Anche le montagne hanno una storia”,
Varese, giugno 2002, in corso di pubblicazione

 

4. Dalla selvatichezza alla modernizzazione

Se l’aspetto che ha maggiormente colpito l’immaginazione culturale sette- e ottocentesca è stato quello della mole minerale, e le rappresentazioni ne restituivano un volto solitario, estremo, spesso desolato, quasi di terra primigenia, non va dimenticato che un accentuato interesse per i costumi degli abitanti si era manifestato fin dal Settecento sotto l’influsso del poema di Haller e poi della filosofia di Rousseau. Per molti versi questo interesse era molto simile a quello portato dalla cultura europea sui mondi esotici, prefigurazione dell’atteggiamento etnografico con cui ci si volge alle culture in via di sparizione. Per molti decenni la cultura alpina è stata, agli occhi di quella cittadina che la usava per il proprio svago o il proprio interesse economico, una manifestazione folkloristica, e quasi sempre gli stessi abitanti delle regioni alpine più soggette al turismo hanno cercato di conformarsi a questo sguardo o sono stati costretti ad entrare nelle logiche economiche provenienti dalle zone urbane e di pianura. Dal punto di vista della percezione estetica, l’immissione nel tempo e negli spazi dell’industria e delle comunicazioni ha prodotto molte trasformazioni dell’immagine montana, sempre meno pacificamente assimilabile alle rappresentazioni ideali del passato. Probabilmente la cosa non va vista esclusivamente nell’ottica negativa del venir meno di caratteri (appartatezza, solitudine, silenziosità, incontaminatezza dell’aria, salubrità del clima, armonia dei paesaggi tradizionali, ecc.) che la connotavano in passato, ma anche in quella di elementi di novità che entrano a connotare l’immagine contemporanea delle Alpi.

Edifici alberghieri, insediamenti turistici, ma anche sanatori, centrali e impianti idroelettrici, l’arditezza dei tracciati stradali identificano e qualificano i luoghi nella percezione della realtà alpina, sottraendola definitivamente all’aura di un tempo arcaico e immutabile che l’impervietà naturale avrebbe preservato. L’afflusso sempre maggiore di forestieri nelle montagne cambia gli stili di vita degli abitanti, si ripercuote sulla loro edilizia, sulle forme economiche tradizionali. L’immagine novecentesca della montagna è sempre più quella di un luogo mondano (soprattutto nella prima metà del secolo), dove le stazioni celebri di villeggiatura spesso sono anche centri cosmopoliti e culturali, in cui la borghesia si celebra con le proprie dimore di vacanza. Una scorsa alla cartellonistica dell’epoca, alle affiches che reclamizzano le località del turismo montano, alcune delle quali sede di olimpiadi invernali, mostra un’immagine delle Alpi pienamente avviate verso le forme contemporanee del consumismo, valorizzate particolarmente nella stagione degli sport invernali, cui sono ormai dedicati vari impianti e infrastrutture destinate col tempo a incidere pesantemente sulla figura del paesaggio tradizionale e sugli assetti ecologici. L’offerta delle superfici sciabili e delle loro qualità paesaggistiche e agonistiche e il moltiplicarsi degli sport invernali diventa decisiva nella concorrenza fra le località, ma non lo sono meno le possibilità ricreative che ne costituiscono la cornice mondana. Così una grande stagione degli alberghi di lusso, soprattutto in Svizzera e nelle Dolomiti, rimane impressa nell’immaginazione collettiva, ma anche ritratta nella letteratura dell’epoca, sulla scia del Bergroman manniano, ma anche efficacemente testimoniata nelle vicende biografiche di molti artisti e scrittori, da Ludwig Kirkchner a Annemarie Schwarzenbach. Se le Alpi sono diventate il salotto invernale internazionale, da St. Moritz a Cortina, ci sono anche le Alpi di un’élite della roccia, che ha usanze meno mondane e moderniste dello sci, eleggendo luoghi e stili più austeri.

E ci sono le montagne incantate dei sanatori, che dai primissimi anni del Novecento (è del 1901 la fondazione del primo sanatorio italiano, Pineta di Sortenna) conoscono una significativa presenza, contribuendo a diffondere (tramite degenti e medici) la conoscenza delle regioni alpine anche in mondi molto distanti. Inoltre l’immagine delle montagne che viene consacrata nella letteratura di sanatorio appare molto lontana da quella prevalente, all’insegna dello svago e della salute sportiva. La fissità del paesaggio che si è “condannati”, spesso per anni, a contemplare, è l’opprimente e inevadibile parete dei monti che chiudono l’orizzonte, lo scatenarsi inesorabile delle bufere invernali (28), o l’avvicendarsi ripetitivo delle stagioni costituiscono il paradosso di un pittoresco che diventa la monotona condanna dell’immobilità ansiosa del malato, mentre la montagna torna a connotarsi di ostilità, mutezza, geologica indifferenza. Sia gli alberghi di lusso che i sanatori e le terme, con il loro stile spesso fantasioso, che individua indelebilmente un’epoca, hanno lasciato un’impronta significativa, ormai sempre meno avvertibile o definitivamente consegnata alla documentazione fotografica, nell’architettura liberty e nel paesaggio della belle époque della montagna; mentre permane, caratterizzando spesso anche l’esperienza di escursionisti domenicali, la presenza di quel tipo di costruzioni che forse contrassegnano maggiormente lo spirito faustiano della moderna architettura, nelle Alpi, gareggiando titanicamente con le forme stesse del paesaggio: gli impianti idroelettrici, i laghi artificiali e le dighe.

Lo sguardo estetico portato sulle montagne, dopo essersi soffermato sull’effetto d’insieme, sulle ampie vedute panoramiche e le forme più spettacolari, anche grazie all’entrata in scena del mezzo fotografico (29), va progressivamente specificandosi, dettagliando la realtà alpina in ogni suo aspetto naturale ed etnografico, avvalendosi anche dei circuiti delle riviste e pubblicazioni specializzate, che oggi hanno sostituito, nella diffusione delle immagini alpine a livello di massa, le cartoline e le stampe di un tempo. È inoltre fondamentale ricordare che se l’alta montagna sembra uno dei paesaggi meglio conosciuti e più visti, è merito essenzialmente della fotografia, che con le sue immagini rende possibile anche a tutti quelli che non ci sono mai stati (e sono la stragrande maggioranza) il godimento delle vette, creste e panorami delle montagne di tutto il mondo. Divenute senza quasi residui oggetti da commercializzare, le Alpi mettono a frutto il ruolo primario della riproduzione fotografica e delle sue risorse tecniche, innanzitutto la potenzialità del colore, che può essere accentuato e variamente manipolato al fine di ottenere effetti di grande impatto, o viceversa, di valorizzare i contesti più quotidiani o inappariscenti della montagna. Il transito delle stagioni, i loro segni, il lavoro contadino e pastorale, gli oggetti domestici e la vita comune, il fieno, gli animali, i fiori, le acque prendono il posto dei soggetti grandiosi e unici, venendo incontro alla richiesta del pubblico di icone di vita semplice, “autentica”, minimale, di spazi e di ritmi di fatto in gran parte sradicati con l’immissione dell’ecumene alpina nella mobilitazione totale della tecnica. Così l’attuale produzione di immagini delle Alpi corrisponde alla duplice anima del moderno, di consumo commerciale e assoggettamento sempre più pervasivo alle logiche del turismo da un lato, e dall’altro di tardiva ed estetizzante pietas nei confronti di mondi culturali e dimensioni naturali che la logica dell’economia e della tecnica hanno condannato alla sparizione; così come talora la maestria del fotografo e l’uso di effetti particolari (p.es. foto di paesaggi innevati al chiaro di luna, effetti d’acqua, foschie, nuvole) è espressione di un sentimento nostalgico della natura che ne valorizza le cariche armonizzanti, rasserenanti, rispetto alle quali è suggerito dalle immagini fotografiche l’invito a rendersi partecipi ed empatici rispetto alla sua bellezza. Lontane dall’intento spesso plateale di “vendere” un prodotto, o di renderlo appetibile “gastronomicamente” con l’esibizione smaccata dell’appeal, queste foto, che hanno preso piede negli ultimi anni parallelamente al desiderio sempre più ampio di “ritorno” alla natura, cercano di suscitare una conciliazione con la natura offesa e deturpata, destando una forte empatia con essa attraverso cromatismi di grande effetto o la struggente poetica della residualità o del minimalismo di gesti e aspetti contemplati nella consapevolezza della perdita.


Note:

28. Cfr. S. Satta, La veranda (1928-’30) Adelphi, Milano 1981: “Questo mirabile mondo che ci sta dinanzi cominciava a seccare con la sua monotonia di cartolina illustrata” (p. 39).
29. Sulla reciproca mimesi tra pittura e fotografia di montagna, cfr. G. Garimoldi,
L’immagine contesa. L’iconografia alpina tra belle arti e fotografia, in Le cattedrali della Terra. La rappresentazione delle Alpi in Italia e in Europa 1848-1918, Electa, Milano 2000. Un notevole esempio di ripresa, consapevolmente citazionistica, degli stilemi sublimi della rappresentazione alpina, ma con un intento critico nei confronti della crescente commercializzazione spettacolare delle Alpi, si trova nell’opera fotografica di Enrico Peyrot, Voyages autour du Mont Blanc1990-1994, Peyrot edizioni, Aosta 1998.

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