Caterina Resta
Atlantici o mediterranei?
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“Mesogea”, 0, 2002, pp.
53-63 |
C. D. Friedrich,
Seestück bei Mondschein,
1827-28 |
Atlantici o mediterranei?
1. Venti di guerra
Quali mari stanno solcando le nostre veloci imbarcazioni?
Quali venti di guerra ne gonfiano le vele spiegate? In quale mare stiamo
naufragando? Ancora una volta le acque del Mediterraneo si tingono di
rosso, un colore antico, come la porpora dei Fenici. Mediterraneo: mare
che da sempre s’infiamma, ma anche capace, da sempre, di spegnere
i suoi incendi, di trasformare lo scontro in incontro, il fronte in confronto,
il polemos in dialogos,
di scorgere, al culmine del contrasto più teso, l’invisibile
e più potente armonia che, al fondo di ogni contesa, trattiene
i contendenti (1). Saprà
ancora una volta trovare la misura che gli è propria, trovare quell’equilibrio
che gli è proprio, tra terra e mare, iscritto nel suo nome? Ma
i venti di guerra mediterranei soffiano anche più lontano, attraversano
e scavalcano i Balcani, fino a giungere in terre remote e quasi dimenticate
dalla storia, come l’Afganistan. Impossibile non riconoscere come
una guerra sia figlia dell’altra, come l’una sia, dopo lo
schianto delle Torri gemelle, la conflagrazione dell’altra, forse,
addirittura, la verità dell’altra. Da mediterranei, ci eravamo
forse illusi di poter trattare il conflitto arabo-israeliano come una
guerra “moderna”, una guerra di terra, nata per questioni
di confine, di frontiere, di terre da conquistare. Anche se le frequenti
azioni terrostiche suggerivano la difficoltà crescente di una messa
in forma di questa guerra, tuttavia essa ci appariva limitata, arginabile,
governabile, e la pace sembrava ormai vicina. Ma il radicalizzarsi dello
scontro ha mostrato quanto fragile fosse l’illusione di riuscire
a “mettere in forma” una guerra nell’epoca della mondializzazione.
Dopo lo scatenarsi di questa terza guerra mondiale, non ci è concessa
più alcuna illusione circa la possibilità di arginare i
conflitti, di localizzare la guerra, di chiare delimitazioni spaziali.
L’altra guerra, quella che stiamo combattendo in Afganistan, non
fa che mostrare ed esplicitare sino in fondo quello che il conflitto mediterraneo
già cominciava a tradire: la radicalizzazione di una guerra post-moderna
che ha ormai definitivamente sepolto non solo ogni idea di jus
publicum Europaeum, ma, con questo, anche l’illusione di
una possibile delimitazione dei conflitti. Carl Schmitt aveva con straordinaria
lucidità e lungimiranza previsto tutto questo, ripercorrendo con
acutezza di sguardo le stazioni di quella via crucis
che sposta gradualmente il baricentro della storia del mondo dall’Europa
e dal ‘suo’ mare, il Mediterraneo, all’America e a quella
sterminata distesa oceanica che non solo la circonda, ma che ne costituisce
l’intima essenza (2).
Se già Hegel ricordava che «in Europa […] quel che
conta è proprio il rapporto col mare» (3);
se, inseguendo un motivo ricorrente (4),
essa è potuta sembrare un piccolo promontorio, un capo, una penisoletta
del grande continente asiatico, ed il Mediterraneo un mare interno, tutto
circondato di terre, l’America, d’altra parte, è, rispetto
alla vecchia Europa, il Nuovo mondo e ancora Hegel la salutava come «il
paese dell’avvenire, quello a cui, in tempi futuri, forse nella
lotta fra il Nord e il Sud, si rivolgerà l’interesse della
storia universale» (5).
Grande Isola, rispetto a quella piccola isola Inghilterra che l’ha
partorita, essa non conosce la misura di un mare mesógeos,
né quella del póntos, di un
mare come strada e ponte da attraversare per congingere terre. Ciò
che la circonda è Oceano, infinita distesa d’acque a perdita
d’occhio, spazio s-confinato dell’illimite e della dismisura.
Dell’irresistibile richiamo dell’oceano essa è stata
infatti risposta.
Su quali rotte abbiamo preso il largo? A quali crociere o crociate stiamo
prendendo parte? Venti di guerra e un cielo di burrasca rendono cupa l’azzurra
profondità di quel Mare Nostrum entro
la cui trasparenza cristallina si sono specchiati da costa a costa, da
sponda a sponda, popoli, lingue, civiltà diverse, misurandosi,
certo, anche attraverso il conflitto, ma, più spesso, confrontandosi
nel dialogo e nella conoscenza dell’altro, sedimentando, col tempo,
anche parole comuni, come quella di “ospitalità”, che
attraversa tutto lo spazio del Mediterraneo, dalla filoxenia
greca, al Dio ebraico e cristiano che ama lo straniero, al rispetto dovuto
all’ospite nella latinità. È ancora, nonostante tutto,
su questo mare che l’Europa si affaccia, un mare in continuo dialogo
con la terra che lo confina, lo costeggia, lo tiene a freno, lo contiene,
insinuandosi in esso con i suoi promontori, frastagliandolo con le sue
insenature e i suoi golfi, disseminandolo di isole e penisole –
«un mare circondato da terre, una terra bagnata dal mare»
(6) lo ha definito Matvejevic – o non ci siamo piuttosto
imbarcati, senza neppure saperlo, per un viaggio ben più arrischiato,
oltre ogni limite e misura, verso l’infinito, illimitato spazio
omogeneo e vuoto della distesa oceanica, là dove nessuna terra
è all’orizzonte, né davanti, né dietro di noi?
A quale mare pensa di appartenere l’Europa, a quel Mediterraneo
che, non senza una certa inflazionata retorica, continuiamo a chiamare
culla dell’intera civiltà occidentale, o a quell’Oceano
che trascinò Colombo oltre ogni limite sino ad allora conosciuto,
alla scoperta di un Nuovo Mondo (7)?
Quella “scoperta” rivelò una volta per sempre le due
anime che lacerano l’Europa, il suo perenne essere in krísis
tra esse, la necessità, ormai improrogabile, di una de-cisione
tra due sponde, tra due mondi, tra due mari. Siamo Atlantici? Siamo Mediterranei?
1. Come ci ricorda Eraclito, D-K 22B 54: «harmoníe afanès
fanerès kreísson».
2. Tutta la riflessione dello Schmitt internazionalista, a torto a lungo
trascurata, si rivela invece, a mio avviso, indispensabile strumento di
analisi per comprendere l’intrico di questioni dell’era globale
giunta, dopo la caduta del muro di Berlino, al suo massimo dispiegamento.
Cfr. soprattutto C. Schmitt, Il nomos
della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum Europaeum»,
tr. it. di E. Castrucci, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1991 e in
particolare per il discorso che qui stiamo svolgendo Id.,
Terra e mare, tr. it. di A. Bolaffi, Giuffré, Milano 1986.
Per una più approfondita trattazione dei temi relativi alla fine
dell’ordinamento globale eurocentrico e della forma stato su cui
si fondava e all’annunciarsi dello spettro di uno Stato mondiale,
mi permetto di rinviare a C. Resta, Stato mondiale
o Nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Pellicani,
Roma 1999.
3. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della
storia, tr. it. di G. Calogero e C. Fatta, La Nuova italia, Firenze
1994, I, p. 271.
4. Cfr. F. Nietzsche, Al di là del bene
e del male, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1993, p. 59,
af. 52: «si andrà meditando tristemente sull’antica
Asia e sull’Europa, la sua penisoletta avanzata, che vorrebbe rappresentare
a tutti i costi, rispetto all’Asia, il “progresso degli uomini”».
La stessa immagine ritorna in uno scritto di P. Valéry, Crise
de l’esprit, del 1919: «L’Europa diventerà
forse quello che è in realtà,
e cioè un piccolo capo del continente asiatico? Oppure l’Europa
rimarrà quello che appare, e
cioè la parte preziosa dell’universo terrestre, la perla
della sfera, il cervello di un vasto corpo?», e ancora: «Ma
che cos’è dunque quest’Europa? È una specie
di capo del vecchio continente, un’appendice occidentale dell’Asia.
Essa guarda naturalmente verso Ovest» (P. Valéry, La
crisi del pensiero e altri “saggi quasi politici”,
a cura di S. Agosti, il Mulino, Bologna 1994, pp. 35 e 44). La prima di
queste due citazioni di Valéry viene ripresa e commentata in una
conferenza del 1959 da M. Heidegger, Terra
e cielo di Hölderlin, in La poesia
di Hölderlin, tr. it. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988,
p. 211. Su di essa, infine, si esercita il paziente lavoro di decostruzione
di J. Derrida, Oggi l’Europa,
tr. it. di M. Ferraris, Garzanti, Milano 1991.
5. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della
storia, cit., p. 233.
6. P. Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario,
tr. it. di S. Ferrari, Garzanti, Milano 1991, p. 22.
7. Sulla perdita di misura nel passaggio da un mare interno alla dimensione
oceanica e per una più profonda comprensione del complesso delle
questioni sollevate in questo mio saggio mi preme rinviare una volta per
tutte alle fondamentali analisi di M. Cacciari, Geo-filosofia
dell’Europa, Adelphi, Milano 1994 e Id., L’Arcipelago,
Adelphi, Milano 1997. Interessanti spunti si trovano anche in F. Cassano,
Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1996 e Id., Paeninsula.
L’Italia da ritrovare, Laterza, Roma-Bari 1998, dove, tra
l’altro, leggiamo: «L’Europa invece diventa una potenza
mondiale quando il suo baricentro si sposta dal Mediteraneo all’Atlantico,
quando, come ha notato Carl Schmitt, il mare rompe a suo favore il rapporto
con la terra, non tollera più confini, diventa oceano. La rottura
e l’eclisse del Mediterraneo coincidono con il tramonto della misura,
con l’avvento del fondamentalismo del mare, il contrappasso assoluto
del fondamentalismo della terra. L’andare del mare fuori di ogni
confine, la sua assolutizzazione, sono la nascita dell’economia,
lo scatenamento della tecnica, lo sradicamento universale, il nomadismo
integrale, la perdita di ogni ritorno, il fare di ogni uomo una nave in
eterna navigazione e senza più ormeggio. È la fine della
costa, del porto, dei punti in cui mare e terra si toccano, si fanno confine
l’uno all’altro e quindi si conoscono e si limitano»
(ivi, p. 81).
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