Caterina Resta
Atlantici o mediterranei?
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C. D. Friedrich, Seestück
bei Mondschein, 1827-28
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“Mesogea”, 0, 2002, pp.
53-63 |
2. Sulle rotte
di Ulisse
Nessuno meglio di Ulisse, questo viaggiatore infaticabile,
incarna, nella sua doppia versione omerica e dantesca, tale dilemma al
cuore dell’Europa.
Odisseo è un uomo del Mediterraneo non solo perché ha i
tratti del polýmetis, di un ingegno
così multiforme da rasentare il raggiro, tanto che Virgilio potrà
definirlo scelerum inventor. Mediterraneo
è anche il suo viaggio, nel quale nóstos
ed éxodos continuamente si contraddicono,
come la terra alla quale si deve infine tornare ed il mare che continuamente
seduce e strappa via. Non semplice figura del ritorno-a-casa, come vorrebbe
Lévinas, contrapposta a quella di Abramo, uomo della partenza senza
ritorno e di una terra che è solo promessa (8),
ma homo viator, figura di un’erranza,
di una continua dilazione, seppure sempre sulla via del ritorno. L’Odissea
non è solo il poema della nostalgia della Heimat
e della sua pace domestica, né, d’altro canto, Odisseo assomiglia
al capitano Achab di Moby Dick. Lo spazio
della sua azione non è la vastità smisurata dell’Oceano,
ma lo spazio misurato, seppure irto di insidie, di un mare interno. La
prua della sua nave è certo diretta sempre verso casa, ma la sua
chiglia scivola leggera sul pelo dell’acqua, incapace di approdi
definitivi. Nessuna fretta, nessuna particolare ansietà incalza
Odisseo in questo lento viaggio di ritorno di spiaggia in spiaggia ed
ogni porto non è porta d’entrata soltanto, ma anche porta
d’uscita, tappa, sosta, per nuove partenze. E le soste possono essere
più o meno lunghe, l’intrattenersi più o meno dolce,
più o meno dimentico di quel richiamo alla terra e agli affetti
domestici che lo costringono a tornare, perché altrettanto seducente,
come il canto delle sirene, è il richiamo che viene dal mare, la
voglia di partire, anche solo di andare. Il viaggiare di Odisseo sarebbe
incomprensibile senza questo andare spesso alla deriva, questo smarrire
la strada, questo oblio della meta ultima, senza le continue digressioni
che costringono a rimandare la fine del viaggio. Tra terra e mare il viaggio
di Ulisse è davvero mediterraneo, una grandiosa epopea delle sue
coste frastagliate e dei suoi promontori, delle sue insenature e dei suoi
stretti, della straordinaria fioritura di isole, da Ogigia, l’isola
di Calipso, a Scheria, la terra dei Feaci, alla Sicilia o alla stessa
Itaca, per citare le più note.
Ben diverso appare invece il viaggio dell’Ulisse dantesco, rievocato
nel XXVI canto dell’Inferno (9).
L’invenzione poetica di Dante che, nell’ignoranza dell’Odissea
omerica, tuttavia si nutre di fonti latine (10),
ci mostra un volto ben diverso di Ulisse, quello che potremmo definire
‘atlantico’, non mediterraneo. Rifacendosi a Cicerone e Seneca,
ora Ulisse appare sapientiae cupido e animato
da innatus cognitionis amor. Non è
più l’eroe del ritorno in patria, seppure dilazionato da
innumerevoli soste, ma è l’eroe della conoscenza, colui che
incalza i suoi compagni a non vegetare, ma a «seguir virtude e canoscenza».
E per conoscere non si può restare,
ma bisogna andare, bisogna salpare, levare
le ancore, spingersi oltre i limiti ritenuti ancora invalicabili, volgere
«la poppa nel mattino», partire alle prime luci del giorno,
secondo alcuni interpreti, per questo viaggio “al termine della
notte”, oppure, secondo altri, invertire la consueta direzione del
viaggio e puntare la prua a Occidente, “di retro al sol»,
inseguendo il sole nel suo cammino declinante, procedere verso il tramonto,
fino al naufragio e al «folle volo».
L’Ulisse dantesco non conosce viaggi di ritorno, rimane sordo al
richiamo dell’oíkos, dove gli
affetti familiari invano lo attendono e potrebbero trattenerlo; solo l’ardore
della conoscenza, di esperire il mondo («l’ardore
/ ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto») lo spinge
sempre oltre «per l’alto mare aperto». Invecchiato,
insieme ai pochi compagni rimasti, tra le sponde del Mediterraneo, avverte
ormai troppo angusti e limitanti i suoi confini, troppo ristrette le sue
vedute. Oltre le colonne d’Ercole,
oltre il perentorio Termine che esse rappresentano per il mondo antico,
si apre lo s-terminato spazio oceanico, l’infinito mare di una conoscenza
senza più vincoli. Oltre quell’estremo limite, lo divora
un’ansia tutta moderna di provare, di tentare, di saggiare, di sperimentare,
infine, l’ignoto. Egli è tra i primi moderni a non saper
resistere al canto di sirena dell’Oceano, a subire la distruttiva
seduzione dell’Illimite. «Nova terra» solo intravista
rimarrà la montagna del Paradiso terrestre, isola utopica galleggiante
su di uno spazio ormai assolutamente de-localizzato, che emerge e appare
solo per un momento, dopo un viaggio ‘notturno’ nel cuore
delle tenebre, nell’istante che precede il naufragio, prima che
nel mare si inabissi la squassata imbarcazione con il suo carico umano.
Ulisse atlantico, quello di Dante, incapace ormai di sentire la misura
mediterranea che continuamente frena il mare con la terra, uomo che ha
smarrito ogni senso della dimora, per il quale l’erranza è
divenuta l’unica, la sola forma di vita, senza più neppure
il ricordo di una casa ove tornare, senza più neppure il piacere
della sosta. Precursore di pirati e balenieri, precursore di quel grande
navigatore oceanico che fu Colombo, questo Ulisse, fratello del capitano
Achab, è tragica figura della volontà di potenza di una
conoscenza senza più limiti o freno.
8. La contrapposizione tra Ulisse e Abramo,
emblematica anche di quella tra grecità ed ebraismo, rimanda per
Lévinas a quella tra una filosofia del ritorno a sé e del
Medesimo, della quale La Fenomenologia dello
spirito hegeliana è certamente la versione più rappresentativa,
ed una filosofia della “fuoriuscita” e della precedenza dell’Altro
sul Medesimo: «Al mito di Ulisse che ritorna a Itaca, noi vorremmo
contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per
una terra ancora ignota e che interdice al suo servo persino di ricondurre
suo figlio al punto di partenza» (E. Lévinas, La
traccia dell’altro, in Scoprire
l’esistenza con Husserl e Heidegger, tr. it. di F. Sossi,
Cortina, Milano 1998, p. 219).
9. Al viaggio dell’Ulisse dantesco e al suo concludersi nel «folle
volo» ha dedicato splendide pagine M. Cacciari, L’Arcipelago,
cit., pp. 63-71. Cfr. anche R. Giglio, Il volo
di Ulisse e di Dante. Altri studi sulla Commedia, Loffredo, Napoli
1997 e i riferimenti bibliografici ivi contenuti.
10. In particolare Ovidio, Virgilio, Stazio, Orazio, Cicerone e Seneca.
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