F. Vallotton, Europa
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Caterina Resta
Europa mediterranea. Una prospettiva geofilosofica |
Atti della XXVIII edizione
delle Giornate internazionali di studio promosse dal Centro Pio Manzù
(Rimini, 19-21 ottobre 2002): Il corno di
Heimdall, “Strutture ambientali”, 124, 2002, pp.
83-95 |
3. Un’altra
Europa
Le risposte sinora date non possono non apparire deludenti,
se non addirittura derisorie rispetto alla sfida della nostra epoca. Dell’Europa
discutono oggi politici ed economisti, burocrati, finanzieri e banchieri.
Prevalendo le esigenze legate all’unificazione della moneta e dei
mercati, del libero scambio delle merci, si persegue piuttosto l’idea
di una unificazione meramente economica e formale, senza accorgersi che
ovunque cresce una forte richiesta di appartenenza, identità, memoria.
Si vogliono mettere insieme delle parti attraverso il collante della convenienza
economica, senza rendersi conto della riduttività e della modestia
di questo progetto, che non riesce in nessun modo a cor-rispondere alle
richieste del presente. L’Europa, questa nuova Europa che ancora
deve venire, se mai verrà, non giungerà tuttavia dalla libertà
e unità dei mercati, ma solo da un evento,
incalcolabile, imprevedibile, che tuttavia ci attende come compito. Se
mai vi sarà avvenire per l’Europa, esso non potrà
non accadere come l’evento dell’altro,
come la promessa di una svolta decisiva per la storia. L’Europa
non è solo da rianimare; tra custodia della memoria e preparazione
dell’avvenire, essa, in primo luogo, deve divenire spazio di apertura
e di accoglienza al suo altro, «a ciò
che non è, non è mai stato e non sarà mai l’Europa»
(5), un’apertura
che, tuttavia, non solo non assimila, ma che, pure, le impedisce ogni
raccoglimento su di sé, ogni possibile riappropriazione di sé
e identità con sé.
Come ha ricordato J. Derrida nel suo importante intervento sull’Europa,
«il proprio di una cultura è di non
essere identica a se stessa» (6):
solo a partire da questo assunto si può davvero preparare l’evento
di un’altra Europa, di un’Europa a-venire. Evento, tuttavia,
al suo fondo, incalcolabile e inanticipabile, imprevedibile, da nessun
programma e da nessuna pianificazione realizzabile, se è vero che
esso deve riguardare una decisione e una responsabilità che eccedono
ogni possibile previsione e calcolo. Il paradosso è ciò
che ci impegna in questo compito, richiamandoci al rispetto di una doppia
legge: da un lato quella di essere i custodi di una tradizione che ha
reso unica l’Europa rispetto a tutti
gli altri paesi, senza tuttavia, per questo, considerarla come un’eredità
archiviabile e capitalizzabile; dall’altro aprire il proprio passato
a quel che ancora non è mai stata, ma che potrebbe diventare, senza
cadere nell’enfasi del nuovo, dell’assolutamente differente,
senza soccombere al rischio della totale amnesia. Preparare un a-venire
per l’Europa vuol dire infatti in primo luogo riconoscersene eredi
non nel senso ovvio di questa parola per cui si riceve semplicemente un
lascito, ma in quello certo più impegnativo di una libera e responsabile
assunzione di quanto ci è stato destinato, avendo da testimoniarne
e da risponderne per l’a-venire. Essere eredi comporta allora un
compito paradossale, ma l’unico che davvero ci impegni: salvaguardare,
difendere, custodire quel che ci viene in dono dalla nostra memoria e,
insieme, aprirsi al dono dell’altro, allo straniero, al non-familiare,
all’estraneo, riconosciuto nella sua radicale eterogeneità
e alterità irriducibili. Rifiutando dunque tanto la logica conciliante
e fagocitante dell’integrazione, come quella della tolleranza, altrettanto
intrinsecamente negatrice dell’altro in quanto altro. Né
l’una né l’altra lasciano infatti aperto quello spazio,
quella necessaria distanza, quella differenza,
indispensabili affinché, nell’incontro e nell’accoglienza,
si possa salvaguardare e custodire l’irriducibile singolarità
di ciascuno. Forse è addirittura impossibile
obbedire sino in fondo a queste due leggi, quella di una fedeltà
mai supina offerta alla propria memoria e quella di un’accoglienza
riservata all’altro a tal punto esigente, che nessuna ‘legge’
sull’ospitalità potrà mai soddisfare: eppure solo
da questo impossibile può giungere a noi la promessa di un a-venire
per l’Europa. Non c’è calcolo o regola per preparare
l’Europa a-venire, ma proprio per ciò si tratta di responsabilità
nel senso di aver da rispondere di un’identità che, provenendo
dall’altro, è sempre in debito nei suoi confronti, pur mantenendosi
ogni volta esemplarmente unica, iscrizione dell’universale nel singolare.
A partire da questa responsabilità si tratta di pensare altrimenti
lo Straniero e l’Estraneo, e, ancor prima, il Familiare, oltre che
il senso del limite, del confine e della frontiera, nella loro accezione
geografica, politica e culturale (7).
Se finora li si è determinati a partire dal Medesimo, come definirli
adesso a partire dall’altro? Come mantenere chiusa, custodita, salvaguardata
una tradizione (terra, lingua, religione, etnia, ecc.) senza che degeneri
in particolarismo, razzismo, fanatismo? Come aprirla, nello stesso tempo,
all’Estraneo, senza per questo snaturarla, facendole perdere il
suo carattere specifico, quel che la rende unica, in nome di un malinteso
principio di traducibilità e universalità omologante? Quale
idea di tra-duzione, di transito, di passaggio non solo di una lingua
in un’altra, deve essere accolta, affinché la singolarità
e unicità di un idioma – e non solo di questo – pur
salvaguardando la propria intraducibilità, tuttavia non si rifiuti
a un certo grado di traduzione?
Nulla è più sfuggente e, al contempo, più cogente,
dell’identità europea. Come tante volte è stato notato,
l’Europa non ha mai avuto frontiere geografiche facilmente riconoscibili,
né un’unica lingua o cultura. Le varie forme politiche succedutesi
sul suo territorio hanno impresso unificazioni intorno a centri diversi,
spostandone continuamente il baricentro e producendo tensioni grandissime
tra Ovest ed Est, nell’antagonismo tra Roma e Bisanzio, ad esempio,
o tra Atene e Gerusalemme; o tra Nord e Sud, nel segno di una vocazione
germanica o latina dell’Impero; tra differenti credi religiosi:
cattolici, protestanti, ortodossi, ebrei e musulmani. L’Europa è
stata dunque da sempre una e molte: mai identica
a sé, se non a partire dalle innumerevoli differenze che da sempre
ne compongono il volto. Il travaglio e il lungo cammino alla ricerca
di sé parte dunque da un’identità fin dall’inizio
plurale, differente in sé. Certo,
sin dal suo sorgere c’è un’Europa che si identifica
con l’Occidente contro l’Oriente,
con il Nord contro il Sud, con la ragione
contro ogni irrazionalismo. Ma il fatto è
che queste contraddizioni non la minacciano dall’esterno, ma l’hanno
da sempre travagliata al suo interno, dal di dentro infinitamente lacerata
e divisa, impedendole di suturare queste ferite una volta per tutte in
una identità finalmente conciliata. Quando ciò è
sembrato accadere, sono stati forse i suoi momenti più bui. Non
poter accedere ad una definitiva identificazione, non significa però
non avere una fisionomia riconoscibile; l’Europa ci sfida a coglierla
proprio nelle divisioni, nei conflitti, nelle differenze che da sempre
l’hanno caratterizzata. Essa testimonia, come meglio non si potrebbe,
che ogni identità si costituisce come differenza.
Non, tuttavia, nel senso che questa alterità appartenga a un fuori
rassicurante rispetto al quale e contro il quale misurarsi: questa identità,
scaturita attraverso la contrapposizione, stabilisce con l’altro
un rapporto di esclusione, espelle tutto ciò che sente come estraneo
o lo fagocita, assimilandolo a sé, pur di non riconoscerne, comprenderne
e rispettarne la differenza. In nome di questa identità forte nasce
il mito di ogni autoctonia: l’essere sempre a casa e presso di sé,
poiché si proviene da sé.
L’identità giunge invece sempre dall’altro,
a partire dall’altro, senza che mai si possa risolverlo e
dissolverlo in sé, se non al prezzo di una violenza inaudita: l’Europa
è stata il banco di prova di questo assunto, e tuttavia sembra
ancora non averlo compreso. Una grave de-cisione l’attende tra alternative
che sembrano inconciliabili: a partire dalla risposta che saprà
dare, dipenderà forse anche il destino dell’Occidente, da
cui in certo modo ormai dipendono le sorti del mondo intero. Questa de-cisione,
che coinvolge perciò le sorti di tutto il pianeta, richiede la
responsabilità di saper cor-rispondere
alla provocazione e all’appello che proviene dal presente. Esso
ovunque ci interpella nell’inquietante imporsi della tecnica moderna,
intesa non tanto come insieme di strumenti, ma quale forma
di pensiero che, attraverso il calcolo, afferma e persegue una volontà
di dominio su tutto il reale (8).
Qui, in Europa, questo progetto è sorto ed è diventato ormai
destino planetario. Da qui, dall’Europa, infatti ha preso avvio
quel processo di occidentalizzazione del mondo che oggi si è pressoché
compiuto, determinando un “nuovo ordine mondiale” non più
eurocentrico, ma ruotante, ancor più a Occidente, intorno a un
nuovo Axis Mundi, il Nord America.
È dunque forse tornando al Vecchio Continente che, di là
da Oriente e Occidente e dalla loro storica contraddizione, potrebbe nascere
un’altra Europa?
La razionalità tecnico-scientifica, in quanto forma estrema di
dominio sul mondo, persegue la sua conquista su scala planetaria in modo
certo più inappariscente, ma ben più pervasivo e violento
di quello coloniale. Di fronte a questo evento – che siamo ancora
molto lontani dal comprendere sino in fondo – non rischia l’unificazione
europea di apparire già superata, risolta e dissolta in quella
gigantesca, planetaria unificazione perseguita dal pensiero calcolante,
di cui telematica e cibernetica mostrano ormai realizzata la reticolare
onnipervasività? Di fronte alla già compiuta unità
del mondo (9) crollano
le antiche alternative, non reggono più, come il muro tra Russia
e America, cortina di ferro che è bastato appena un soffio a demolire.
Ma allora, nella sempre crescente uniformizzazione del globo terrestre,
c’è ancora spazio, c’è ancora tempo per quell’evento
che chiamiamo ‘Europa’? Può ancora aver luogo, nella
tabula rasa del deserto planetario, qualcosa
come l’Europa?
L’egemonia del pensiero euro-occidentale si è imposta sul
mondo con la pretesa di aiutare, forzare, costringere, sedurre gli altri
a diventare come noi, incarnazione dell’umanità e dell’universale.
In una terrificante eterogenesi dei fini, proprio la culla della civiltà
e della tolleranza dei popoli ha provocato i più spaventosi genocidi
culturali e la più desolante devastazione del pianeta, investendo
con la sua potenza distruttiva non solo l’umanità nella variopinta
geografia dei suoi popoli, ma anche la natura, in tutte le sue forme,
viventi e non viventi. Animali, piante, rocce millenarie, interi paesaggi
sono stati annientati, sfregiati, ridotti a spoglio deserto per opera
dell’uomo – di un determinato
tipo d’uomo – e in nome dei suoi inalienabili diritti. Una
sparizione silente e inosservata di specie viventi si consuma ogni giorno,
senza che neppure ce ne accorgiamo, sulla terra, nei mari e nel cielo,
come una lenta e invisibile malattia che pian piano corrode e inaridisce
il mondo, mentre noi cresciamo e ci moltiplichiamo a ritmi vertiginosi,
prendendo sempre più spazio nell’arretramento della natura,
divenendo sempre più uguali e uniformi, sempre più simili
ad una maschera privata dei lineamenti di un volto, nella progressiva
cancellazione di ogni tratto riconoscibile. Ciò, tuttavia, non
accade senza contraccolpi. Solo all’interno del non pacifico affermarsi
dell’epocale perdita di radici è possibile comprendere il
risveglio e il risorgere di un bisogno di identità e radicamento.
È su questo piano che si giocherà una battaglia decisiva
per le sorti dell’intera umanità, perché solo a partire
dalle risposte che sapremo dare a questa esigenza, sarà possibile
superare – o forse prolungare indefinitivamente – l’epoca
dell’“ultimo uomo”, come Nietzsche amava chiamarlo.
L’altra Europa, quella cui vorremmo aspirare, se mai vedrà
la luce, dovrà essere un’Europa unica nella sfaccettatura
dei diversi volti che la compongono, ma a nessuno di essi, singolarmente
preso, riconducibile. Da tutti questi volti, da tutti questi idiomi, potrebbe
prendere forma, come in un mosaico, una nuova immagine, quella di un’Europa
unita nell’insieme dei suoi frammenti, identica a sé solo
in quanto in se stessa molteplice e differente, da nient’altro tenuta
insieme se non dall’inesausto desiderio di ciascuno di confrontarsi
con l’altro, in un dialogo alimentato non da ciò che è
familiare e comune, ma da quanto è e deve rimanere assolutamente
estraneo e singolare.
5. J. Derrida, Oggi
l’Europa, cit., p. 51.
6. Ivi, p. 14.
7. Cfr. J.-L. Nancy, Alla frontiera, figure
e colori, tr. it. di L. Bonesio in AA. VV., Geofilosofia,
cit.
8. Per questa interpretazione della tecnica quale moderna espressione
di una volontà di potenza che persegue il dominio del reale attraverso
l’imposizione di un pensiero calcolante cfr. M. Heidegger, La
questione della tecnica, in Saggi e
discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976 e E. Jünger,
L’operaio. Dominio e forma, Guanda,
Parma 1991.
9. Sugli aspetti inquietanti di un governo mondiale della tecnica hanno
insistito, pur con differenti accenti, C. Schmitt, L’unità
del mondo e altri saggi, Pellicani, Roma 1994 e E. Jünger,
Lo stato mondiale. Organismo e organizzazione,
tr. it. di A. Iadicicco, Guanda, Parma 1998. Per un analisi più
approfondita di questi temi mi permetto di rinviare a C. Resta, Stato
mondiale o Nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso,
cit. e Id., Verso assetti planetari,
in Passaggi al bosco. Ernst Jünger nell’era
dei Titani, cit.
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