Caterina Resta
Ricordare l’origine. Riflessioni geofilosofiche
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“DRP”, 4, 2002, pp. 11-18 |
2. Una città
ou-topica
È forse un Luogo Messina? C’è ancora
una seppur debole traccia di quel Geviert
che solo consente all’uomo di dirsi “abitante”? Davvero
disperate appaiono queste domande, davvero “fuori luogo” se
rivolte ad una città che ha fatto della de-localizzazione il suo
primo e solo imperativo, perseguito con ostinata coerenza. Ironico e derisorio,
se non addirittura provocatorio, invocare i divini e i mortali, il cielo
e la terra per una realtà il cui degrado, la cui de culturazione
fa rimpiangere persino la dura ascesi del deserto. Poiché Messina
non è semplicemente spazio de-localizzato, puro deserto o piatta
distesa oceanica, non è semplicemente l’uniforme su cui sperare
di poter imprimere nuovi ordini, ma è il deforme che riconduce
all’informe, al caos, all’anarchia,
che è assenza di Principio e di Misura, Babele,
città della totale Confusione. Basta giungere dal mare per accorgersi,
in un colpo d’occhio, in un’unica sorprendente veduta, di
avere davanti non l’immagine di un centro abitato, ma un’accozzaglia
disordinata di cemento, piovuto non si sa da dove né come, che
scempia quella che per puro sforzo di fantasia retrospettiva, si può
intuire sia stata la bellezza del sito naturale, ormai irrimediabilmente
sfregiato. Raramente, credo, tanta disarmonia può apparire con
maggiore evidenza o essere più stridente. Ma quello che ad uno
sguardo d’insieme appare incoerente disordine incapace di cor-rispondere
al luogo, visto dall’interno si rivela un autentico inferno: non
una città, ma un fiume, perennemente in piena, di mezzi più
o meno pesanti che a tutte le ore, con rumore incessante ed assordante,
tracima e invade ogni spazio. Ciò che rimane è solo desolazione
e degrado, rifiuti e sporcizia, vergognose baraccopoli o squallidi quartieri
un tempo periferici, ormai confitti nel cuore stesso della città.
Per non parlare dei nuovi insediamenti che ogni giorno vomitano cemento
a pioggia con villette a schiera o megalitici complessi residenziali,
solo nuovo scempio che si aggiunge a quello già esistente.
Come “abitare”, come trovare dimora là dove tutto sembra
asservito alla logica del transito, del passaggio, dello scorrimento?
Come stare in questa furiosa corrente che
trascina uomini e cose nella sua corsa devastante, lasciandosi ai margini
detriti e rifiuti che si sedimentano in ampie zone di devastazione, spesso
dimenticate?
Città ou-topica, Messina, per quanto
ironica possa suonare questa definizione, abituati come siamo a confondere
utopia con eu-topia, con l’idea di
uno spazio felice, sogno di un paradiso terrestre nel quale finalmente
realizzare il desiderio di un’organizzazione sociale e spaziale
perfettamente ordinata e compiuta. Sogno non a caso presto trasformatosi
in incubo, nelle sue versioni fantascientifiche più tarde, come
nei vari tentativi di applicazione pratica, perché traduzione in
concreto di una istanza totalitaria e immanentistica che non lascia vie
di fuga.
Figlia della Modernità e dell’affermarsi della razionalità
scientifica, l’utopia può divenire un fortunato genere letterario
solo perché corrisponde allo spirito di un tempo per il quale l’horror
vacui si è trasformato nell’esaltante percezione di
uno spazio omogeneo e vuoto, perfettamente padroneggiabile attraverso
la matematizzazione del reale e il calcolo, interamente sottoposto alla
volontà di potenza di un progettare
astratto perché si esercita a partire da un mondo disanimato e
privo di ogni aspetto qualitativo. Da questo vuoto, da questo niente,
tutto può essere edificato-costruito, infinitamente manipolato,
trasformato, dall’ambiente naturale alla stessa natura umana, come
le recenti frontiere della biotecnologica dimostrano.
Ou-topia (7)
nomina allora quella nichilistica de-localizzazione che annienta
ogni differenza qualitativa e che, trasformando il Luogo in uno spazio
amorfo drasticamente ridotto a tabula rasa,
lo priva perciò anche del suo intrinseco carattere geostorico e
delle sue valenze geosimboliche. Deserto (Nietzsche), là dove la
sabbia avanza a perdita d’occhio, in uno spazio sempreuguale senza
più limiti tracciabili e riconoscibili; oppure Oceano (Schmitt),
la cui infinita distesa, superficie assolutamente liscia, irride ogni
con-fine e possibile de-finizione: queste sono le immagini forse più
eloquenti per descrivere il niente che ci circonda e la perdita della
capacità di trasformare lo spazio in un Luogo abitabile.
Messina di questo niente ha fatto il proprio imperativo urbanistico, mostrando
come sul nulla possano crescere solo spazi anarchici e caotici, incapaci
di raggiungere una Forma.
Di questo Informe Messina è sconcertante specchio, da esso traggono
ispirazione tutti i suoi timidi o temerari tentativi di cercare quel Luogo
che le manca. Forse bisognerebbe semplicemente concludere che Messina
“non ha luogo”, avendo sinanche smarrito il ricordo del Luogo
che pure, per lungo tempo, è stata capace di essere.
7. È in questa accezione che Carl Schmitt coniuga strettamente
utopia e nichilismo nella prospettiva – tutta moderna – di
una inesorabile Entortung. Ancora in questa stessa accezione ne parla
M. Cacciari, Di naufragi e utopie, in
L’Arcipelago, Adelphi, Milano
1997.
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