| 
         
          | Caterina Resta Ricordare l’origine. Riflessioni geofilosofiche
   |  
 |  
          | “DRP”, 4, 2002, pp. 11-18 |    5. Anamnesi Sottratta alla città e alla fruizione dei suoi 
        abitanti o di quanti volessero a vario titolo fruirne, la penisola della 
        Falce appare oggi in tutto il suo oltraggioso isolamento come terra di 
        nessuno, isola che naviga alla deriva, completamente dimenticata, mentre 
        la sua memoria storica, paesaggistica e ambientale appare per molti versi 
        irrimediabilmente scempiata dall’incuria dell’uomo, coperta 
        e occultata da un utilizzo assolutamente improprio degli spazi, oltre 
        che da rifiuti di ogni genere che ne accentuano la desolazione e il degrado.
 Nello smarrimento del suo luogo d’origine, Messina ha dimenticato 
        il suo mare, così come ha dimenticato la sua terra. Lì dove 
        la terra trema e continuamente rade al suolo quanto l’uomo ha faticosamente 
        edificato, facendo tabula rasa della sua 
        memoria storica, lì dove la terra è massimamente infirma 
        e precaria, mostrando continuamente all’uomo l’assoluta vanità 
        delle sue opere, come la radicale finitezza dei suoi giorni, non è 
        certo facile “abitare”. Messina sembra infine essersi arresa 
        di fronte al suo destino di precarietà, di fronte alla transitorietà, 
        sicché il transito, il passaggio sono diventati oggi la sua devastante 
        vocazione, il suo autolesionistico cupio dissolvi. 
        Come se il terremoto, da episodica calamità, fosse ormai divenuto 
        condizione normale, norma. Ma i passaggi 
        si possono solo attraversare; essi non consentono alcuna possibilità 
        di dimora. Per questo Messina non è più un Luogo ed essere 
        Messinesi ha finito con il coincidere con questa impossibilità 
        a identificarsi, ad appartenere a uno spazio e a un tempo definibili. 
        Smemorati abitanti, si aggirano nel febbrile movimento che percorre la 
        città che trema di queste impercettibili, ma incessanti scosse.
 
 Se la terra trema, il mare, invece, appare del tutto sedato: non luogo 
        dell’arrischio né dello scambio e del confronto con l’altro, 
        ma puro e semplice raccordo autostradale tra le due sponde. Della sua 
        antica bellezza, paesaggistica e monumentale al contempo, Messina serba 
        solo antiquario e distratto ricordo in stampe troppo antiche e lontane 
        nel tempo, da guardare col dovuto distacco, estrema testimonianza di quel 
        corrispondersi tra la bellezza naturale del sito e quella storico-artistica 
        che grandi architetti come Montorsoli, Jacopo del Duca, Ponzello o Juvarra 
        avevano mirabilmente saputo interpretare nel comporre in sorprendente 
        consapevolezza geostorica. Di tutto ciò quasi più nessuna 
        traccia è rimasta, poiché là dove l’ultimo 
        terremoto ha raso al suolo la memoria storica dei monumenti cittadini, 
        la successiva opera costruttiva dell’uomo non è stata meno 
        devastante, incapace di saper più interpretare quell’intreccio 
        geostorico in virtù del quale soltanto Messina può avere 
        ed essere Luogo.
 
 È passato ormai quasi un secolo da quella terribile alba del 28 
        dicembre del 1908 che cancellò identità e memorie, inghiottendo 
        come in una voragine il presente insieme al passato. Da allora Messina 
        attende ancora un altro inizio, attende che il terremoto finisca. E da 
        dove cominciare, se non dalla propria origine, da quella sottile striscia 
        ricurva di terra, da quella falce cronia in cui storia e mito, mare e 
        terra prodigiosamente all’Inizio si sono incontrati dando 
        luogo a Messina? Proprio qui, d’altra parte, quasi miracolosamente, 
        sono rimaste ancora tracce significative di una memoria altrove cancellata: 
        gli straordinari resti della Cittadella, la lanterna di Montorsoli, i 
        ruderi del forte di S. Salvatore, per non parlare delle testimonianze 
        ancora più antiche, che risalgono fino ai primissimi insediamenti.
 
 Ogni Luogo, infatti, non può aprirsi se non nella consapevolezza 
        geostorica che è chiamato a esibire: senza questa memoria, che 
        sempre annoda in un misterioso corrispondersi storia della terra e storia 
        dell’uomo, nessun vero abitare è possibile. Messina ha un 
        grande passato storico ed una prodigiosa collocazione geografica e paesaggistica: 
        saprà ancora una volta, come in passato, ritrovare se stessa, nel 
        suo inevitabile essere diventata altra? Poiché non si tratta evidentemente 
        di resuscitare il passato, ma di ereditarlo. 
        La memoria geostorica senza la quale è ou-topia, 
        non si deposita infatti come una serie di dati disponibili in un archivio, 
        che a piacimento basta consultare. Non assomiglia ad un grande magazzino 
        dove più o meno ordinati o abbandonati giacciono vecchi arnesi 
        ormai inutilizzabili, secondo una logica puramente museale. Sentirsi eredi 
        del passato significa essere capaci di renderlo ancora una volta attuale, 
        di corrispondervi in forme nuove, di testimoniarne, pur nella consapevolezza 
        del suo essere irrimediabilmente trascorso. Non mera archiviazione, né 
        ripetizione, un’eredità è ciò che siamo chiamati 
        ad assumerci in vista dell’avvenire, affinché ci sia avvenire, 
        dal momento che non vi può essere futuro senza memoria del passato.
 
 La Falce e, a partire da essa, l’intera città di Messina, 
        hanno bisogno di questa anamnesi per risalire al proprio primo inizio 
        e, di lì, poter iniziare ancora una volta. La città potrà 
        tornare ad essere Luogo solo se saprà riappropriarsi del suo luogo 
        d’origine, se saprà, a partire da esso, risalire alla propria 
        originaria Forma e così ritrovare ciò che le è proprio. 
        Sapranno i Messinesi ricordare la loro origine, sapranno riascoltare l’inaudito 
        dialogo tra terra e mare che trascorreva tra le sponde dello Stretto, 
        sapranno ricongiungere Falce e Peloro in una nuova forma 
        urbis? Queste sono le domande, questi gli imperativi che si impongono. 
        Ma essi mi sembrano sinora essere caduti nel vuoto, essere rimasti inascoltati, 
        irrisi, persino, da una cittadinanza completamente immemore, che ha smarrito 
        il senso della propria appartenenza e sembra finanche indifferente di 
        fronte a questa esigenza. Abituati al passaggio, 
        abbiamo totalmente perduto il senso dello stare. 
        Ma, per quanto divenuta ormai quasi invisibile, quella piccola falce piovuta 
        dal cielo nel cuore del Mediterraneo ci ricorda chi siamo, da dove veniamo, 
        verso dove potremmo essere diretti, potrebbe forse offrirci un Luogo per 
        le nostre dimore, se ancora è possibile soggiornare, nell’armonico 
        accordo di terra e di mare, sotto la volta di un azzurrissimo cielo. Sapremo 
        ancora una volta renderlo spazio abitabile?
 
  
       © 2004-9 Geofilosofia.it - Tutti 
        i diritti riservati |