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DI GEOFILOSOFIA


Caterina Resta

Ricordare l’origine. Riflessioni geofilosofiche

 

“DRP”, 4, 2002, pp. 11-18

 

4. Tra mare e terra

Per chi si affaccia sullo Stretto, appare subito chiara la complessa rilevanza geostorica di questo sito che non ha pari nel Mediterraneo. La Lingua phari, infatti, col suo braccio ricurvo, è da un lato, nella sua forma concava, terra che si incunea nel mare dello Stretto come un corpo flessuoso ripiegato appena, creando con il proprio ventre l’insenatura del porto, spazio riparato da venti e correnti, mentre dall’altro offre la schiena al mare aperto dello Stretto, esponendosi al ritmico incontro delle correnti come al soffiare dello scirocco. Se una sponda, dunque, ri-guarda la città, rispecchiandola nella superficie di un mare recintato dalla terraferma, abbracciato, raccolto, acquietato nel riparo del grembo portuale, l’altra sponda, invece, oltre il mare, giunge a dialogare con il bordo continentale, guarda il taglio d’acqua che l’ha separata dall’altra terra, continuamente lo ricorda come quella frattura originaria che fa della Sicilia un’isola, nesos, qualcosa che naviga, secondo una radice indoeuropea (9).

Ma oltre al rapporto tra questi due mari, la Falce instaura anche un rapporto tra due terre: la terra della zona falcata, la Lingua phari, e la terra nella quale questo braccio si innesta, il corpo da cui si diparte per cingere il mare. Ancora una volta tutta la storia di Messina sarà condizionata da questa geomorfologia, nel problematico rapporto tra braccio e corpo: strettamente congiunti l’uno all’altro, tanto da far percepire la Falce come una penisola, più spesso, invece, violentemente separati, distaccati, fino a fare della Falce un’isola. Emblematici momenti di questa insularità, la costruzione nel 1680 della Cittadella che taglia la lingua di terra dal resto della città, ma più ancora la barriera architettonica creata dalla Stazione marittima delle navi traghetto, con il conseguente intrico di binari, e dalla chiusura degli ampi spazi occupati dalla Marina militare.

Terramare, la zona falcata è emblema eloquente di quell’incessante dialogo da cui sorgono le città mediterranee. Esse, infatti, non giacciono sulla sponda dell’Illimite, non guardano il mare aperto dell’Oceano, spazio privo di misura e refrattario a ogni nomos, deserto d’acque su cui non si riesce a tracciare confini, a ritagliare forme e figure, superficie liscia e uniforme, spazio del sempreoltre, dell’incessante attraversamento e perciò del più assoluto sradicamento. Nulla più del mare di Messina è medi-terraneo, porthmos e poros al contempo, stretto braccio equoreo circondato da terre, passaggio, scorrimento, ma trattenuto, contenuto tra sponde terranee. In pochi luoghi del Mediterraneo il contrasto, l’attrito tra terra e mare fu più stridente, a partire da quello strappo originario, da quella cesura primordiale che fece di Sicilia un’isola, un nesos fluttuante nelle acque, di fronte a quel che, saldamente ancorato, restava epeiros, terra firma. Scilla e Cariddi di null’altro sono mitico riferimento se non dell’arrischio di questa frattura, imperitura memoria di un contrasto mai sedato che separa, ma al tempo stesso unisce, mari e terre, al crocevia del Mediterraneo. Costantemente di fronte a questo polemos si trova Peloro, ad esso continuamente richiama la Falce bifronte e solo qui esso appare, anche se solo per un istante, finalmente sedato. Come Eraclito suggerisce, un’invisibile armonia si schiude al cuore della più lacerante discordia e la lingua di terra falcata, nella sua stessa morfologia, ne è sorprendente ed eloquente attestazione. Essa offre il fianco a questo contrasto, ma per sedarlo nel porto; si protende nel mare, ma per abbracciarlo e tenerlo fermo. Come ha scritto Massimo Cacciari «il porto non può che essere l’istante, atopos per definizione, in cui mare e terra trapassano l’uno nell’altro. “Luogo”, cioè, del massimo pericolo, dove si fa esperienza del massimo pericolo» (10). Mentre ou-topos, illocalizzabile è lo spazio privo di nomos, a-topos è invece il frat-tempo in cui il Luogo stesso si dischiude, sospeso al suo arrischio, tra mare e terra. Qui, nella Falce, il taglio che li separa continuamente si mostra, ma pure si accenna con non minore evidenza a quella profonda unità che li collega, mantenendoli nella loro assoluta distinzione. Luogo visibile dell’invisibile armonia dei due. Di che altro parla il mare riparato del porto se non di questo precario, insostenibile equilibrio tra mare e terra, se non di quella guerra tra il richiamo dell’Illimite, dell’Indefinito e il suo scontrarsi incessante con il confine terraneo? Luogo della massima insecuritas, il porto è figura di questo insanabile contrasto, punto, al contempo, di approdo e di partenza, di un movimento che costantemente cerca un precario equilibrio tra l’appello terraneo a stare ed il richiamo del mare ad andare. Nessuno meglio dell’Ulisse omerico ha saputo incarnare questa duplice tensione nel suo viaggio tra i porti del Mediterraneo, nessuno meglio dell’Ulisse dantesco ha mostrato, invece, dove conduce la dismisura del richiamo dell’Oceano, mare dell’Illimite, perché non contornato di terre (11).

La Falce del porto ha conosciuto simili navigatori mediterranei, i suoi stessi abitanti furono tra i più intraprendenti di loro. Ma il loro viaggio sembra ormai essersi definitivamente concluso; mollati gli ormeggi, alla loro partenza non ha mai più fatto seguito un ritorno. Il grande emporio al centro del Mediterraneo, gli scambi e commerci non solo di mercanzie, ma di lingue, culture, saperi, appaiono ormai solo un ricordo lontanissimo, per i pochi che ne serbano memoria ormai solo storica. Tra le due sponde dello stretto viaggiano da tempo solo cose e persone, scivolando veloci come lungo un’autostrada: il ponte sullo Stretto, invisibilmente, è già da tempo stato costruito. Nulla più è in grado di trattenere, di sedare questo movimento pendolare che attraversa una città ridotta a mero luogo di transito e passaggio, incapace di ritrovare quel nomos che l’ha resa grande, quella misura tra terra e mare che pure la Falce, sommessamente e disperatamente, continua a testimoniare, nonostante tutto, a chi sappia scorgere oltre il suo evidente degrado, la sedimentazione di memoria che, per quanto derisoriamente, in essa ancora sopravvive.

 

Note:


9. Lo segnala P. Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario, tr. it. di S. Ferrari, Garzanti, Milano 1994, p. 233.
10. M. Cacciari, Prefazione a N. Aricò, Illimite Peloro, cit., p. 5.
11. Sulla figura di Ulisse, tra Omero e Dante, rimandiamo alle illuminanti pagine di M. Cacciari, L’Arcipelago, cit.

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